#1/2014 – FRANCESCO PAOLO CERASE con Clementina Casula

Nella tesi di Dottorato affronti il tema dell’emigrazione di ritorno dagli Stati Uniti all’Italia…

In questo caso sulla scelta dell’argomento influirono gli scambi di idee con il mio tutor di dottorato, Sigmund Diamond, allora docente di Sociologia storica alla Columbia. Diamond mi chiese quale fosse il mio interesse e cominciammo a ragionare di Mezzogiorno ed emigrazione. Sull’emigrazione italiana in generale e verso gli Stati Uniti in particolare c’era una letteratura molto vasta, così come sull’emigrazione di ritorno c’erano, oltre a tanti dati, molti documenti e testimonianze; tuttavia non c’era mai stata un’indagine specificamente mirata a studiare gli emigrati ritornati in patria: cosa li avesse spinti, o indotti, a tornare e, soprattutto, quali effetti avesse avuto il loro ritorno. L’emigrazione dall’Italia non aveva riguardato solo il Mezzogiorno; c’era stata anche dalle regioni del Nord e dal Veneto in particolare. E lo stesso si poteva dire dell’emigrazione di ritorno. Come spiegare, allora, una situazione che ad oltre mezzo secolo di distanza si presentava così diversa? La tesi dell’emigrazione di ritorno come fattore di innovazione o di reazione, e soprattutto il modello interpretativo su cui si reggeva, ebbe un notevole riconoscimento tra gli studiosi di emigrazione. Il modello muoveva sostanzialmente dall’idea che il ritorno altro non fosse che una delle possibili conclusioni di un unico processo che combinava le condizioni strutturali del paese di partenza, le attese e motivazioni dei singoli, le esperienze nel paese di arrivo, per terminare con le condizioni del paese di ritorno. Dall’intreccio di questi diversi elementi derivava una tipologia di emigrati di ritorno che individuava in quelli che, rientrando nel paese di origine, avevano contribuito a consolidare o, viceversa, trasformare le condizioni di partenza, i due tipi principali. Sta di fatto che da subito fui invitato a scrivere degli articoli su riviste specializzate e a partecipare a convegni internazionali[9]. Mi ritrovai ad essere riconosciuto come uno dei più accreditati returnist… Ma anche in questo caso dopo una decina di anni decisi di non volermi più occupare di emigrazione.

Con Ivo Baucic, in occasione di un convegno internazionale sull’emigrazione organizzato nel 1979 a Mostar, davanti al ponte simbolo distrutto durante la guerra dei Balcani recentemente ricostruito

Hai smesso di  occuparti del tema proprio quando in Italia i flussi di immigrati aumentano e gli studi sui fenomeni migratori si sviluppano…

E’ vero! Vedi, ho sempre pensato che ciò che ci rende attraente il mestiere del sociologo è il fatto di poter avere gli strumenti – o almeno cercare di averli – per capire la società, il mondo in cui viviamo e il modo in cui, in un modo o in un altro, si evolve. Ma gli strumenti da soli non bastano, conta anche avere buoni punti di osservazione. E ognuno di noi, penso, crede che ciò di cui si occupa gli o le offra un punto di osservazione privilegiato, tale da permettere di vedere cose che altrimenti sfuggirebbero. Può darsi che oggi non sarei della stessa opinione, ma quando ho smesso di occuparmi di emigrazione mi ero convinto che non fosse più un buon punto di osservazione per capire quello che succedeva, o perché la società italiana era diventata quello che era. Viceversa, mi sembrò che l’analisi della pubblica amministrazione – tema che avevo già considerato grazie alla lettura dei meridionalisti e poi con il lavoro sulla piccola borghesia impiegatizia – mi aprisse una potente opportunità di capire di più e meglio. La circostanza che accelerò e facilitò questo spostamento di interesse fu la partecipazione a metà anni ‘80 ad un’impegnativa ricerca dell’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica (ISAP) coordinata da Guido Romagnoli sui rapporti tra amministrazione pubblica e sindacati. Fu allora che mi convinsi che, per come la nostra pubblica amministrazione era strutturata, per il modo in cui operava, per il modo in cui si rapportava alle domande della società civile, rappresentava – come più volte ho scritto –  “il vero collo di bottiglia” che congestionava, strozzava spinte e movimenti di rinnovamento: fu lì insomma che concepii la tesi dell’“amministrazione bloccata”[10]. Detta in breve, se uno vuole capire non solo l’arretratezza del Sud d’Italia, ma anche l’incompiutezza dello sviluppo del Nord, ha bisogno di capire che cos’è, come funziona – o non funziona – la nostra amministrazione pubblica; ha bisogno di capire chi c’è dentro e a che titolo. Venire a capo di domande di questo tipo significava essere disposti a affrontare un piano di ricerche a tutto campo, che coinvolgesse non solo l’analisi sul piano istituzionale, delle regole dell’agire amministrativo, ma anche delle modalità di organizzazione dell’attività amministrativa e naturalmente dei soggetti, dalle figure impiegatizie a quelle dirigenziali. Non era uno sforzo da poco; in un certo senso significava rimettere insieme temi che venivano studiati ognuno per conto suo in campi disciplinari diversi. Per un po’ ci ho provato, trovandomi così ad interagire con giuristi, organizzativisti, qualche lavorista, ma più ancora (questo attraverso l’appartenenza a reti europee) con scienziati dell’amministrazione. Praticamente quasi mai con sociologi economici…

Prima di approfondire le ragioni di tale disinteresse, ti chiedo di fare un passo indietro per spiegarmi cosa ti spinse a rientrare in Italia, visto il bilancio positivo sull’esperienza americana.

Dopo la laurea passai a salutare Castellano e gli riferii della partenza in America per proseguire gli studi in Sociologia; mi disse di andarlo a trovare al ritorno e così feci nell’autunno del 1965, una volta conseguito il Master alla Columbia, dove mi ero impegnato a continuare il programma di Ph.D. Mi ascoltò per un po’ e alla fine mi propose di lavorare nel suo Istituto, offrendomi subito un posto di assistente incaricato e prospettando la partecipazione al concorso di assistente ordinario che si sarebbe svolto di lì a qualche mese. Sì, ero stato tentato di restare negli Stati Uniti (anche perché avevo una moglie canadese che forse avrebbe gradito un mio orientamento in quel senso). Ma quando mi trovai davanti la proposta di Castellano mi rallegrai con me stesso per una certa tenacia che mi aveva portato a rifiutare l’offerta di insegnare sociologia non ricordo più in quale università del Rhode Island e altre proposte di lavoro nient’affatto disprezzabili, che mi avrebbero però portato lontano dall’università e dalla sociologia.Castellano_Sociological works Tutto ciò credo non succeda più da tempo. Tieni anche presente che quelli erano gli anni del boom dell’insegnamento delle discipline sociologiche nelle università americane e bastava avere il Master ed essere avviato in un programma di dottorato di un’università di prestigio per ricevere offerte di lavoro. Accettai la proposta di Castellano e dopo qualche mese, vinto il concorso, mi ritrovai ad essere assistente ordinario di Sociologia.  

 

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