#2/2014 – GIAN PRIMO CELLA con Roberto Pedersini

Quali persone hanno contato di più nel tuo percorso intellettuale?

 baglioni In ambito sociologico, come detto, Alberoni nei primi anni, Baglioni e Manghi per tutta la vita. Però al di fuori della Sociologia, sul piano culturale, politico e umano, le persone che hanno più influito sulla mia vita, sulla mia formazione e alle quali penso spesso sono sicuramente quattro: Pierre Carniti, Gino Giugni, Alessandro Pizzorno e Bruno Trentin. Hanno avuto influenze diverse, ma importanti, alcune in certi periodi, alcune sempre. Penso spesso a loro e mi capita di chiedermi cosa direbbero in certe situazioni… Carniti è stato forse il primo sindacalista che ho incontrato, nel dicembre del 1964. Rimasi colpito: era in occasione di un seminario sulla situazione politica italiana alla Fim nazionale, che allora aveva sede a Milano. Avevo 22 anni e scattò subito un’amicizia. Carniti ha portato l’idea pratica di un sindacato che era animato da passione, da radicalità, da una tensione morale peculiare. Con questa strana combinazione data, da un lato, dal riferimento al sindacalismo americano nei metodi e anche nell’asprezza rivendicativa e, dall’altra, da una tensione morale e anche etica, che prendeva di più, in fondo, dall’esperienza francese del personalismo francese alla Emmanuel Mounier, all’esperienza della CFDT (allora CFTC)[4]. C’era questo mix: da una parte il sindacalismo americano e il grande punto di riferimento era la UAW e il suo grande leader Walter Reuther[5]; dall’altro una tensione etica e un rigore morale che derivavano più dall’esperienza del personalismo francese, ma anche da alcune esperienze cattoliche italiane molto particolari, di margine ma importantissime, come quella di don Primo Mazzolari in Lombardia. Trentin aveva alcuni tratti in comune con Carniti; era però anche un intellettuale di altissimo profilo, con una storia personale incredibile e con un fascino personale, un magnetismo, che non si dimenticano. Anche con lui scattò un rapporto molto bello, quasi affettuoso negli ultimi tempi (che per uno come lui non era cosa di poco conto, perché sapeva essere durissimo). Lo conobbi a Milano nel 1967, quando organizzammo un seminario alla Cattolica dopo il contratto dei metalmeccanici del 1966, che era stato un po’ una sconfitta. Io e Manghi invitammo alcuni sociologi milanesi, fra i quali Alessandro Pizzorno, che non si occupava di sindacato ma era già sensibile a questi temi, e Angelo Pagani; come economista Franco Momigliano, che era uscioperina figura importantissima; e poi Trentin, oltre a Luigi Macario, che era il segretario generale della Fim. Poi qualcuno ci fece notare che Trentin era deputato per i comunisti, ma noi non ce ne preoccupammo troppo. Mi ricordo che siamo andati a prenderlo al cancello: non si vedevano molti deputati comunisti alla Cattolica in quegli anni (doveva essere il dicembre del 1966).il sindacato

Del rapporto, per me fondamentale, con Giugni ho già detto qualcosa prima. Pizzorno, per dirla in sintesi, è ciò che ogni scienziato sociale vorrebbe essere, o perlomeno il tipo di scienziato sociale che a me piacerebbe essere. L’ho incontrato le prime volte nel 1966-1967, durante i seminari che facevamo alla Cattolica. Aveva vinto il concorso e l’avevano chiamato ad Urbino, ma stava a Milano. In quelle occasioni è iniziato un rapporto, che poi si è intensificato negli anni successivi. Nel suo caso c’è l’elemento di fascino che deriva dalla sua straordinaria carriera accademica, che lo ha visto al Nuffield College, a Harvard, poi all’Istituto Universitario Europeo: era ed è un sociologo circondato da un prestigio e un riconoscimento all’estero, nella comunità internazionale, unici in Italia. Inizialmente, mi incuteva un po’ di timore, perché era uno che ascoltava, ma non perdonava: ascoltava tutti, anche i più semplici, anche i più giovani; ascoltava ma replicava, e non ti perdonava nulla, ti incalzava, diceva: “Ma tu che cosa intendi, definisci meglio, non mi convince!”. Con lui, l’impressione è di non essere mai alla pari; è sicuramente la persona più intelligente che io abbia mai conosciuto. Ha rappresentato una tale scuola, un tale stimolo…

 Ripercorrendo gli interessi di ricerca che caratterizzano la tua produzione scientifica dagli anni Sessanta ad oggi si possono individuare alcune fasi, partendo dal lavoro e dalle relazioni sindacali fino alla ricerca sui confini, passando per l’approfondimento e l’arricchimento dei contributi polanyiani…

 Anzitutto c’era l’interesse per il sindacato: si era già manifestato con la prima idea di tesi in storia economica e, grazie alla tesi proposta da Baglioni sull’Algeria, lo portai avanti tenendo conto degli aspetti culturali, storici, politici. Successivamente, quando rimasi all’Istituto di Sociologia della Cattolica, mi occupai di studi di Sociologia del lavoro e dell’industria. Mi piace ricordare che la Sociologia economica non esisteva ancora (tranne che per qualcuno che si occupava un po’ dei consumi): fino agli anni Sessanta e Settanta la Sociologia che si occupava di questi temi era quella industriale (che derivava dalla Industrial Sociology americana) e quella del lavoro (legata agli sviluppi della Sociologie du travail francese). Io seguivo da un lato questi due filoni, dall’altro il tema del sindacato, e li univo assieme. Anche il mio ruolo nel sindacato e nella partecipazione alla elaborazione della linea rivendicativa nasceva dal fatto che ero un sociologo esperto di lavoro e di industria. Importante a questo proposito fu il libro La concezione sindacale della Cgil, scritto nel 1968-69 con Manghi e Roberto Pasini.

 Come fu accolto questo lavoro in ambiente sindacale?

 Innanzitutto, il libro è leggibile ancora oggi e rimane una interpretazione della cultura sindacale della Cgil del tutto attendibile e attuale (infatti è continuamente citato e ripreso a distanza di quarant’anni). Vi segnalavamo la nostra appartenenza alla versione del tutto particolare della cultura Cisl, che ho illustrato prima, ma che c’era un’attrazione forte anche per la cultura sindacale della Cgil, della quale pure mettevamo in luce i limiti (ad esempio, una personalità travolgente e affascinante come Di Vittorio ci aveva colpito). Fu accolto bene dal versante più di sinistra della Cgil, cioè da Vittorio Foa; con Trentin non ne abbiamo mai parlato esplicitamente; fu macinato lentamente perché era edito dalle Acli e non è che fosse di ampia circolazione, ma mi ricordo che avemmo molte recensioni, alcune critiche. Accornero scrisse una recensione sull’Unità, in parte critica e in parte di apprezzamento. Dagli storici della sinistra ricevemmo commenti molto molto lusinghieri, addirittura sorprendenti: mi ricordo una lunga discussione sul libro di Aldo Agosti[6], che dichiarava di aver molto apprezzato molto il lavoro e si chiedeva se ci volevano questi tre giovani cattolici per capire veramente cosa fosse la Cgil.

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