#3/2014 – MARINO REGINI con Gabriele Ballarino

Se non era un tema frequentato da Luciano Cavalli, figuriamoci dagli altri membri di una Commissione di tesi della facoltà di Giurisprudenza!

 Ricordo che la Commissione rimase in seduta a porte chiuse per un tempo interminabile: dopo Cavalli mi raccontò che ci fu quasi un litigio, perché si riconosceva che avevo fatto un ottimo lavoro, ma dare la lode a uno che si era laureato in Sociologia a Giurisprudenza era considerato uno scandalo! Mi diedero la lode, nonostante tutto: quella fu una mia piccola rivincita contro i giuristi che mi avevano annoiato con le loro lezioni e i loro testi d’esame…

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L’anno dopo, appena tornato dal servizio militare, Cavalli mi informò che il Co.S.Po.S.[1]  aveva preso contatti con Alessandro Pizzorno per istituire a Milano una Scuola superiore di sociologia, cioè una sorta di dottorato (che allora non esisteva in Italia: è stato istituito nel 1980 e il primo ciclo è dell’82-’83). L’idea era di fare una scuola di specializzazione per formare in Italia una nuova generazione di sociologi. La prima generazione post-bellica (quella dei Pizzorno, Franco Ferrarotti, Luciano Gallino, Francesco Alberoni, Achille Ardigò) era composta da persone che non avevano avuto una formazione specifica in sociologia: venivano da altri studi come filosofia, economia, medicina. E la generazione successiva (quella di Guido Martinotti, Massimo Paci, Carlo Donolo, Sandro Cavalli, Laura Balbo, Bianca Beccalli) aveva studiato sociologia prevalentemente all’estero. L’idea era quindi di creare il primo gruppo di sociologi che ricevevano una formazione sociologica molto intensiva in Italia: così nasce l’Istituto Superiore di Sociologia, presso l’Università Statale di Milano, con sede all’Umanitaria[2]. Il primo ciclo, nel 1967-69, era a numero chiuso, per una decina di persone con borsa e un’altra decina senza borsa. Io feci domanda, riuscii a vincere una borsa del C.N.R. e quindi mi trasferii a Milano in quello stesso anno. Questa è stata la mia prima full immersion nella sociologia, direi una delle due grandi esperienze formative che ho avuto come sociologo. In quel primo ciclo insieme a me c’erano Emilio Reyneri, Arturo Parisi, Raimondo Catanzaro, l’anno successivo arrivarono Alberto Melucci, Ida Regalia e altri sociologi di quella generazione. Il clima della Scuola era estremamente vivace e interessante: erano gli anni del movimento studentesco e noi ci sentivamo privilegiati perché pensavamo di avere gli strumenti analitici per interpretare quello che succedeva. I maggiori sociologi italiani di allora venivano a insegnare lì: avevamo tutti i giorni lezione, un giorno Pizzorno, un giorno Gallino, un giorno Alberoni, un giorno Ardigò, un giorno Luciano Cavalli, un altro Barbano, tutto il meglio che c’era allora. Ma soprattutto Pizzorno, che è stato il grande leader intellettuale di quell’esperienza.

 C’erano lezioni anche con sociologi stranieri?

 Stranieri ne venivano ogni tanto. Mi ricordo che, ad esempio, venne Touraine. Non tantissimi comunque, perché allora non era così in uso invitare studiosi stranieri. Poi c’era anche un problema di soldi. Però se c’era uno straniero che passava da Milano, sì, veniva a far lezione… La Scuola aveva, oltre ai docenti, dei tutor, che erano quelli di pochi anni più anziani di noi che erano stati a studiare all’estero (tra cui Guido Martinotti, Sandro Cavalli, Laura Balbo e altri). E’ stata la mia prima grande esperienza formativa, innanzitutto per la leadership intellettuale di Pizzorno, e poi perché eravamo stati tutti accuratamente selezionati. Facemmo tutti un primo anno di corsi comuni in cui ci vennero dati da studiare criticamente i classici, ma soprattutto i sociologi più in voga allora – Reinhard Bendix, Samuel Eisenstadt, Barrington Moore, David Lockwood, John Goldthorpe – cioè la sociologia anglo-americana degli anni ’60, che era poco conosciuta in Italia, tranne per qualche traduzione del Mulino o di Comunità, e che noi discutevamo animatamente. E nel frattempo nel ’68 era nato il movimento studentesco. Mi ricordo che ci dividemmo in due gruppi tra gli allievi della scuola, quelli che ritenevano che i leader del movimento fossero gli operai e quelli che ritenevano che fossero gli studenti…

 Tu a quale fazione appartenevi?

Io ed Emilio Reyneri, insieme a Marianella Sclavi, decidemmo che erano gli operai; tra quelli che invece ritenevano che fossero gli studenti c’erano Giuliana Chiaretti e molti altri. I nostri tutor (a me, Emilio e Marianella avevano assegnato Bruno Manghi, al ‘gruppo studenti’ Carlo Donolo) ci dissero, in modo intelligente e pragmatico, di trasformare in ricerca la nostra passione: “Benissimo: fate una ricerca sulla classe operaia oppure sugli studenti”. Non so se l’altro gruppo abbia mai prodotto risultati di ricerca; noi invece prendemmo molto seriamente questa idea, anche perché fin dall’inizio ci era stato detto che nel secondo anno avremmo dovuto tradurre in ricerca empirica ciò che avevamo imparato l’anno precedente. Decidemmo di focalizzarci su come era cambiata la condizione operaia, o come stava cambiando l’organizzazione del lavoro, e scrivemmo un mega rapporto di ricerca da cui poi ricavammo con Emilio il libro che è rimasto il nostro best seller, per ragioni non tanto sociologiche quanto politiche: Lotte operaie e organizzazione del lavoro[3]. Fu infatti adottato in tutti i corsi di formazione sinLotte e Dilemmidacale per tanti anni, sette edizioni che ci hanno persino fruttato un po’ di soldi, cosa mai più avvenuta! E noi molto a lungo fummo associati a questo libro, che in realtà era, come ci disse subito Pizzorno, “Un bel libro, ma un libro a tesi”, quindi non una vera analisi sociologica…

 Ma avevate fatto una ricerca empirica ad hoc o avevate utilizzato il vostro coinvolgimento nel movimento?

 Avevamo fatto entrambe le cose, nel senso che sotto la guida di Bruno Manghi avevamo fatto numerose interviste a sindacalisti e operai delle fabbriche milanesi; in più Emilio e io tenevamo dei corsi di formazione sindacale organizzati da Beppe Della Rocca all’Umanitaria e ne approfittavamo per confrontarci con gli operai e i sindacalisti che venivano a questi corsi: raccoglievamo informazioni, ci facevamo raccontare, dopodiché si discuteva collettivamente.

Dunque questa Scuola è stata la mia prima grande esperienza formativa, direi principalmente per l’ambiente di comunità, lo spirito comunitario che vi si respirava: litigavamo fra di noi, ma ci stimavamo e passavamo le giornate a discutere animatamente. Ogni libro che leggevamo era occasione di discussione accesa, che è veramente il modo in cui si impara, secondo me. In breve tempo eravamo diventati così arroganti che ci ritenevamo capaci di mettere in difficoltà i docenti che ci piacevano di meno… e quasi sempre ci riuscivamo!

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