#1/2015 – ANGELO PICHIERRI con Valentina Pacetti

ANGELO PICHIERRI racconta a Valentina Pacetti del suo percorso di formazione “tutt’altro che standard e omogeneo”: galeotto, nell’amore per la Sociologia, fu lo stage in Olivetti, dove illustri sociologi coltivavano promettenti laureati divisi tra catena di montaggio e attività di ricerca. Le conoscenze di quegli anni si riveleranno fondamentali per la realizzazione professionale nell’accademia, sia dal punto di vista scientifico, sia in termini di reti di relazioni che faciliteranno la carriera, talvolta in maniera del tutto imprevedibile: in quanto piemontese e maschio parte avvantaggiato in un concorso per professore incaricato, mentre a causa della scarsa competenza calcistica quasi si gioca il posto di visiting fellow a Berlino! All’interno del percorso accademico matura il superamento dei pregiudizi ideologici sulla letteratura sociologica e la graduale consapevolezza della profonda interrelazione tra realtà produttiva e territorio, ancora oggi esplorata con attività di formazione e ricerca portate avanti a livello locale e internazionale.

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Inizia raccontandomi come mai il futuro sociologo sceglie di iscriversi e laurearsi in Giurisprudenza. Che cosa voleva dire fare il sociologo nell’Italia degli anni ’60?

Ho iniziato l’università nel 1958. Seguendo gli spostamenti di mio padre, maresciallo dei carabinieri, vivo in provincia fino ai sedici anni e arrivo a Torino negli ultimi anni di liceo, diplomandomi un po’ in anticipo. La scelta della facoltà è stata un grave problema, perché avevo alcuni vaghi interessi di tipo politico-sociale che non presentavano al tempo nessuna possibilità pensabile di traduzione dal punto di vista professionale e poi, dal punto di vista della struttura dell’Università, le Scienze sociali non erano rappresentate o lo erano in maniera assolutamente minimale. Come risultato mi sono iscritto a Giurisprudenza, che era la tipica soluzione per chi era abbastanza bravo da affrontare una facoltà rigorosa, e con le idee abbastanza confuse da non sapere esattamente che cosa avrebbe fatto dopo. I ragionamenti che faceva mio padre, erano che se proprio non avessi voluto fare il giudice (sarebbe stato il suo sogno!) la laurea in Legge era comunque condizione per l’accesso a quasi tutti i concorsi pubblici statali: a quel tempo era una prospettiva lavorativa realistica. Comunque, mi sono iscritto a Giurisprudenza a Torino: era una buona facoltà, una facoltà interessante. bobbioFilosofia del diritto la faceva Norberto Bobbio; gli altri erano giuristi a tutto tondo, a volte giuristi che facevano politica, come Giuseppe Grosso[1], che insegnava Diritto romano. Giuseppe_GrossoAnche se l’ho scelta in maniera abbastanza casuale, il fatto di aver studiato Giurisprudenza mi è servito da molti punti di vista: per un bel po’ d’anni soprattutto per dare un po’ di ossatura giuridico-formale alle cose che facevo, come attività politica prima ancora che scientifica; molto più tardi, da 10 o 15 anni a questa parte, ho riscoperto alcuni grandi giuristi (Kelsen per dirne uno), che mi sono serviti moltissimo quando ho cominciato a scoprire che alcuni concetti chiave che noi utilizziamo correntemente come sociologi, come quelli di  persona giuridica/attore collettivo, ordinamento, sanzione, ecc., sono stati formalizzati e concettualizzati in maniera rigorosa dai giuristi molto prima di noi.

Negli ultimi anni di Università, dati i tempi, e data la mia testa, ho cominciato a far politica, cioè ad avvicinarmi al Partito Comunista. E quindi, mentre studiavo diritto, i miei interessi e anche la mia attività militante in campo politico sociale crescevano. La possibilità che questo avesse una traduzione in campo universitario era estremamente modesta: non esisteva una facoltà di Scienze politiche, che esisteva solo come corso di laurea di Giurisprudenza (scelto dai drop-out, quelli che non ce la facevano a superare esami duri come il terribile Diritto civile). FirpoLAvevo seguito alcuni corsi per puro divertimento, anche se non c’entravano niente con il mio curriculum. A quel tempo cominciavo a leggere Marx, per ragioni legate alla mia militanza politica, e in sede accademica la prima persona da cui ho sentito parlare seriamente di Marx è stato Luigi Firpo [2], in Storia delle dottrine economiche. Firpo era brillantissimo, e ricordo ancora vividamente dei pezzi delle sue lezioni che mi avevano colpito, turbato e irritato…

Come arrivi alla Sociologia?

Negli anni ’60 frequentavo il mitico Istituto di Scienze Politiche, dove c’era Filippo Barbano, che aveva una delle primissime cattedre di Sociologia, o forse era solo professore incaricato di Sociologia nel corso di laurea in Scienze politiche. Ho cominciato a frequentare l’Istituto perché lì Carlo Marletti e qualcun altro organizzavano dei “Gruppi di ricerca sociologica” [3]. ADRIANO-OLIVETTIA questo punto arriva il contatto con l’Olivetti, che in realtà è il passaggio fondamentale attraverso cui arrivo sul serio a qualcosa che assomiglia alla Sociologia. I seminari che si facevano in via Po prevedevano l’invito di “esterni” (ricordo ancora un incontro con Antonio Giolitti), ma c’era una parte più stabile del seminario che prevedeva incontri settimanali per discutere libri. La curava Antonio Carbonaro, che poi ebbe una cattedra di Sociologia a Firenze, e che a quel tempo lavorava alla direzione del personale dell’Olivetti. L’Olivetti era un covo di sociologi (come Franco Ferrarotti, Luciano Gallino, Alessandro Pizzorno) e aspiranti sociologi. Carbonaro seguiva questi seminari e utilizzava questa attività anche per fare il talent scout: eravamo in quei tempi assolutamente miracolosi in cui uno come Olivetti diceva ai suoi: “Se incontrate dei laureati brillanti, indipendentemente da quello che fanno, segnalateli che in qualche modo si utilizzano!”. Attraverso l’attività di Carbonaro era in qualche caso possibile passare dai seminari dell’Istituto agli stage in Olivetti. Ero alla vigilia della laurea e accettai molto volentieri la possibilità di uno stage di un mese, insieme con Bruno Ferrero, che fece poi carriera politica, e Guido Viale, con il quale condivisi la stanza a Ivrea, che cinque anni dopo divenne leader di Lotta Continua[4]. Lui era uno che studiava sul serio e studiava i classici della Sociologia: ricordo che, in un periodo in cui io leggevo solo Marx, lui mi aveva detto che Weber, quello sì che bisognava leggerlo per capire qualcosa del capitalismo… Ora che ci penso è in Olivetti che ho conosciuto anche Federico Butera. Ma siamo diventati davvero amici dopo, quando lui lasciò l’Olivetti e fondò una società[5], con la quale ho lavorato e imparato ancora parecchio sull’industria e sul lavoro.

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