#1/2015 – ANGELO PICHIERRI con Valentina Pacetti

Come e quando avviene il tuo ingresso in accademia?

Fino ai 30 anni sono stato un spiantato totale, guardato con amorevole preoccupazione dai miei genitori, che speravano che mi decidessi ad andare a fare un concorso per entrale all’INPS o da qualche altra parte per cominciare a guadagnare qualcosa. All’Università sono entrato nel 1970 e nel 1980 ero professore ordinario. Ero bravo, nel senso che è stata una carriera veloce anche per quei tempi, però è difficile comparare questo percorso con quelli odierni… Nel periodo che va dal 1962, la mia laurea, al 1970, che ha segnato il mio ingresso nell’accademia (nel ’70, o ’71, sono diventato assistente di ruolo), c’è stato il servizio militare, che è durato un anno, e poi, visto che non potevo stare senza stipendio, ho accettato la proposta dei compagni comunisti di andare a fare il capo-ripartizione al Comune di Aosta: i laureati in Legge iscritti al PCI, specialmente in Val d’Aosta, non erano molti…COGNE
Ad Aosta ero conosciuto perché ci avevo fatto la mia prima esperienza di ricerca sul campo. Insieme a Carlo Marletti, Beppe Bonazzi e un po’ di altre persone, avevamo avuto un piccolissimo contributo, come commessa della programmazione regionale, per due ricerche: la mia prima ricerca di Sociologia industriale, sugli operai della Cogne, e la mia prima ricerca di Sociologia rurale sullo sviluppo in Valpelline[7].

All’Olivetti avevo conosciuto la fabbrica, nel servizio militare e al comune di Aosta ho conosciuto la burocrazia: il Comando della Brigata alpina e la Ripartizione Affari generali del comune erano proprio tipi ideali… Ad Aosta stavo bene, ma in comune no: cercavo un’occasione per andare via, e nel 1966 il pretesto fu la fine dell’amministrazione di Sinistra e l’avvento del Centro-sinistra. Detti le dimissioni e tornai a Torino, dove non mi aspettava nessun lavoro, se non un paio di supplenze, in una scuola media della Val di Susa e al serale dell’Istituto tecnico di Ivrea. Mio padre vacillò un po’ quando gli comunicai che lasciavo il mio lavoro stabile ad Aosta e, contemporaneamente, che mi sposavo.
Solo nei primi anni ‘70 il mio stipendio superò quello di mia moglie, che faceva l’insegnante e mi manteneva. La maggior parte dei lavori occasionali di quel periodo me li procurava Gallino, con cui collaboravo ai Quaderni di sociologia: traduzioni, correzioni di bozze, redazione di voci di enciclopedia, ecc.

Dei testi che hai tradotto ce n’è stato qualcuno particolarmente importante per te?

Bendix libroTra quelli importanti c’è stato Work and Authority in Industry di Richard Bendix, uscito da Etas Kompass in una collana di classici. A Gallino avevano chiesto di scrivere il saggio introduttivo, e lui, che ormai mi stimava, mi aveva chiesto di farlo insieme, il che era un grosso riconoscimento: io ci avevo pensato su 24 ore e poi gli avevo detto di no…

Per quale motivo?

Ma perché io ero un sociologo marxista, lui un sociologo borghese… come potevamo scrivere una cosa insieme sull’industria?!? È stato probabilmente uno dei casi in cui io ho messo alla prova la pazienza di Gallino. Rimpiango moltissimo di avere a un certo punto, per beghe accademiche, raffreddato e praticamente interrotto i rapporti con lui, che in tutta questa fase è stato estremamente importante per la mia formazione. Gallino libro

Facevi anche ricerca empirica?

Verso la fine degli anni ’60, sempre precario, continuavo a lavorare con Gallino, professore incaricato di Sociologia all’Università di Torino. Una delle svolte per la mia carriera è avvenuta nel ’67-’68, con una ricerca sull’automazione dei sistemi informativi nello stabilimento Italsider di Cornigliano: una commessa arrivata a Gallino grazie ai suoi rapporti con dirigenti delle Partecipazioni statali, in particolare in Finsider. E’ stata la mia prima ricerca importante: nel gruppo di ricerca c’erano Gian Luigi Bravo (che poi ha fatto l’antropologo e il sociologo rurale), Vittorio Rieser (che avrebbe potuto fare bella carriera accademica, ma non gli interessava particolarmente), Alberto Baldissera e Edda Saccomani (che poi a vario titolo hanno lavorato all’Università). A questa ricerca ne sono seguite altre, in Siderurgia e nelle Partecipazioni statali, e poi degli studi di caso che riguardavano la Carlo Erba e la Standa di Milano, per esempio, per conto dell’Arpes, una società fondata da Gallino con Alessandro Fantoli e Paolo Leon. Tra le persone che lavoravano per Arpes nei primi anni ’70 ho conosciuto personaggi interessanti come Guido Carandini (grande studioso di Marx, imprenditore e leader della rivolta degli allevatori per le quote latte negli anni ’90); oltre a Gianfranco Bottazzi (arrivato attraverso un’altra filiera, forse rientrava allora dal Nord Africa), Baldissera, Felice Battaglia, Paolo Ceri.

Per un lungo periodo la mia attività di ricerca è avvenuta prevalentemente attraverso Arpes, ricerche a cavallo tra Sociologia del lavoro e Sociologia dell’organizzazione. La più grossa fu quella sul raddoppio dello stabilimento di Taranto (dove avevano già lavorato Guido Baglioni e alcuni dei suoi allievi). Il raddoppio dello stabilimento sembrava una follia da vari punti di vista, ma c’è una cosa in particolare sulla quale ho dovuto riflettere quando è scoppiato il bubbone Ilva, che riguarda la mia vita professionale ma anche privata: io sono pugliese e i miei cugini e zii abitano a 30 km da Taranto. ILVA_-_Unità_produttiva_di_TarantoEravamo ricercatori onesti e sensibilissimi ai problemi dello sviluppo professionale, della qualificazione del lavoro più o meno monotono, e naturalmente della salute degli operai sul posto di lavoro, ma per noi la sostenibilità ambientale non è mai stata un problema. Sapevamo benissimo che in certi quartieri di Taranto non si poteva mettere la biancheria alle finestre perché diventava subito rossa, o che c’erano stati dei problemi da quando l’acqua del Mar Piccolo veniva utilizzata per il raffreddamento degli altoforni; ma non è mai diventato un tema di ricerca (almeno fino a tempi molto posteriori…).

Il percorso di cui ti sto parlando, forse caratteristico della mia generazione, ha prodotto effetti molto contraddittori, propri di una formazione tutt’altro che standard e omogenea, con il bene e il male che questo comporta. Alla fine degli anni ’60, avendo studiato e praticato ricerca in ambiti che non molti sociologi italiani praticavano, ero veramente bravo in certi campi. Su altri terreni, che riguardano la metodologia, l’uso della statistica, ma anche la lettura dei classici, ero in una situazione molto inferiore a quella di un qualsiasi studente di dottorato odierno, perché non avevo seguito un percorso di studio regolare.

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