#1/2015 – ANGELO PICHIERRI con Valentina Pacetti

Ma il percorso “regolare” era allora disponibile in Italia?

No, non era disponibile, ma negli anni ’60 cominciava ad esserci qualcosa, perché c’era la Scuola superiore di Sociologia a Milano… Comunque avevo degli aspetti di dilettantismo, da una parte, e di intersciplinarietà scarsamente governata, dall’altra; per cui per molti periodi del mio percorso io ho letto più Economia che Sociologia, perché questo era più coerente con il mio orientamento e con la mia preparazione politica. Insomma, al concorso da assistente e all’ingresso formale nell’accademia sono arrivato con una preparazione che percepisco come contraddittoria e lacunosa (e che non sono mai riuscito completamente a superare…).

PARSONSPoi c’era anche una componente di tipo ideologico, perché io, che ho letto per anni sul serio Marx e i marxisti, ho sentito il bisogno di leggere davvero Weber o Durkheim molto più tardi. Per qualsiasi rispettabile sociologo orientato a sinistra in Europa gli studiosi struttural-funzionalisti americani erano, se non proprio “il nemico”, comunque un’altra cosa. E io, con un po’ di inquietudine, ho dovuto prendere atto che questa cosa qui c’era e che dovevo farci i conti. Per fortuna c’era, più ancora di Gallino (che di Parsons era studioso), Gian Antonio Gilli (che ne era appassionato lettore). Gilli libroGilli, che era un contestatore di estrema sinistra, basagliano, dal punto di vista sociologico mi ha insegnato che Parsons e lo struttural-funzionalismo andavano presi sul serio. Per me Gilli è un sociologo geniale, bravissimo nel cogliere argomenti completamente inusitati e ricchi di potenzialità esplicative; si è occupato di alcune cose apparentemente eccentriche, come gli stiliti (uno dei suoi temi era quello della comunicazione in situazioni estreme, o del significato sociologico delle pratiche corporali estreme), ma il suo libro più geniale è quello sulle origini dell’eguaglianza nella Grecia antica [8].

Con Gallino sullo sfondo, devo dire che Gilli è stato una delle due persone che hanno avuto un’influenza importante sulla mia carriera accademica (l’altro è stato Franco Ferraresi, di cui ti parlo dopo), imparando dal punto di vista scientifico e della ricerca. Tra l’altro Gilli mi ha anche procurato il primo posto da incaricato di Sociologia! Gallino era professore “incaricato” di Sociologia all’Università di Torino sia nella facoltà di Magistero che in quella di Lettere e Filosofia. In entrambe le sedi io e qualche altro amico davamo una mano: un gruppo piuttosto folto, perché gli studenti erano molti e perché la Sociologia, o quel che passava per Sociologia, era diventata di moda. A partire dagli anni ’70 ero strutturato e stipendiato, come assistente di ruolo, con la prospettiva lontanissima e difficilissima di diventare ordinario e quella più realistica di stare all’Università come professore incaricato (che diventava “stabilizzato” dopo qualche anno). Il fatto di essere assistente di ruolo era già una bella sicurezza, rappresentava l’ingresso nel sistema delle garanzie, ma dal punto di vista dello status accademico il passaggio importante era quello di diventare titolare di un corso. Nel frattempo Gilli, nel tentativo disperato di evadere dalla Olivetti (non voleva restarci, ma non poteva permettersi di rinunciare allo stipendio) era diventato professore incaricato prima a Sassari e poi allo IUAV (l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia), dove stavano gran parte degli urbanisti che contavano. Un giorno mi telefona per dirmi che si apriva un bando per un posto di professore incaricato di Sociologia urbana e regionale. Io gli dico: “Cosa c’entro io con la Sociologia urbana e regionale?” e lui mi risponde che la cosa fondamentale è che il presidente del corso di laurea era Giovanni Astengo (grande architetto e urbanista, autore del primo piano regolatore di Torino) e che dal suo punto di vista i miei titoli fondamentali per vincere il concorso erano di essere piemontese e di non essere una donna.

Quindi la tua carriera accademica si fonda su una doppia discriminazione positiva: territoriale e di genere!

Ma sì, in un certo senso… Gallino è stato molto corretto, perché anche se non vedeva affatto di buon occhio il fatto che io me ne andassi (e per i due anni successivi in cui ho pendolato, quando tornavo da Venezia lui si comportava come se fossi stato in vacanza), quando gli ho chiesto “Che cosa faccio?”, lui ci ha pensato un momento e mi ha detto: “La regola della carriera accademica è che, quando c’è un posto, lo si prende”. Allora io l’ho preso, e ho fatto questi due anni a Venezia, dove sono stato benissimo, e che mi hanno aperto un altro mondo: quello del territorio e della città.Pichierri libro A un certo punto Gallino ha deciso di tenere la cattedra a Magistero, dove aveva maggiori prospettive di carriera, e di lasciare l’incarico alla facoltà di Lettere e Filosofia, e mi ha proposto di prenderlo. A questo punto la scelta era tra Venezia e Torino: hanno contato molto ragioni di famiglia, e così ho lasciato Venezia. Per anni mi è capitato di pentirmene quando andavo a trovare i miei amici con ufficio sul Canal Grande, mentre io stavo nei sotterranei di Palazzo Nuovo…

DirettoriSempre a proposito di Gallino, una cosa che apprezzavo moltissimo era il suo stile “aziendale” e la sua freddezza, per cui, mentre davamo del lei a Barbano, per esempio, che però ci dava del tu, Gallino dava a tutti del lei, sottolineando un aspetto di parità. Abbiamo cominciato a darci del tu molti anni dopo, quando ormai ero ordinario da un pezzo e molte volte ci capitava di trovarci attorno a un tavolo con sei sette persone che si davano tutte del tu, tranne io e Gallino che ci davamo del lei…

Dicevi pocanzi che Venezia ti ha insegnato a guardare al territorio…

Fino a quel momento mi ero occupato di fabbriche in modo abbastanza “disincarnato” rispetto al territorio, perché le fabbriche di cui mi occupavo col territorio avevano poco a che fare (questo è un discorso che poi io e te abbiamo sviluppato insieme su FIAT e Torino). Dal punto di vista intellettuale l’esperienza veneziana è stata importante come apertura alle questioni del territorio, dell’edilizia e dell’abitare, che mi erano fino a quel momento abbastanza estranee.

A Venezia insegnavo Sociologia urbana e regionale. Anche se mi avevano detto che potevo tranquillamente fare un corso di Sociologia tout court, io avevo preso sul serio l’etichetta e mi ero sforzato di dare una curvatura “territoriale” a quello che già facevo a Torino (che allora erano soprattutto lavori su quella che in altri momenti si sarebbe chiamata “stratificazione sociale”, ma che all’epoca era senza ombra di dubbio “struttura di classe”). Tra i libri di testo che utilizzavo c’era ad esempio una delle mie scoperte intellettuali dell’epoca, Emilio Sereni, economista agrario, dirigente che si occupava delle politiche agrarie per conto del PCI, che era assolutamente geniale nel mettere in connessione un’analisi di tipo marxista molto ortodosso sulle classi sociali con l’insediamento territoriale e con l’evoluzione del paesaggio.

ires piemonte 2008Questo periodo veneziano è stato abbastanza circoscritto dal punto di vista temporale, ma questa attenzione per il territorio l’ho recuperata più tardi. Non troppo più tardi quella per l’edilizia, perché ho partecipato pochi anni dopo, con l’Ires CGIL, ad una mega-ricerca sull’edilizia residenziale, occasione nella quale ho conosciuto Sebastiano Brusco e ritrovato un po’ di persone che avevo conosciuto a Venezia. Invece la dimensione territoriale in senso stretto l’ho recuperata qualche tempo dopo, quando ho cominciato ad occuparmi di declino industriale e poi di sviluppo locale.

Quando sono cominciate le tue esperienze internazionali?

Come dicevamo, fino agli anni ’70 il riferimento obbligato dei Sociologi del lavoro e dell’organizzazione era la Francia (e oltretutto il francese era l’unica lingua che parlavo davvero). WOODWARDNel corso degli anni ’70, però, auspice Gallino, comincia a diventare importante anche l’Inghilterra, per via delle contingenze organizzative alla Joan Woodward (che era una degli autori di culto di Gallino, e poi di Butera, da cui l’ho fatta tradurre e curare per Rosenberg & Sellier) [9], e poi soprattutto per il Tavistock Institute, del quale Gallino in Italia era uno dei pochi che sapesse davvero qualcosa. A questo punto io desideravo andare in Inghilterra, ma ero giovane e senza risorse, in un periodo in cui l’ipotesi di un soggiorno all’estero non era facile. Ricordo che chiesi a Gallino “Ma secondo lei è difficile andare in Inghilterra?”, e lui, dopo la tradizionale pausa di riflessione, mi aveva detto: “Io so che chi voleva andarci ci è andato”. E così, armato di questa massima, sono andato in Inghilterra! Avevo ottenuto un modestissimo finanziamento del CNR per un soggiorno di un mese, ma ci voleva un invito. Ero molto a corto di relazioni significative e l’invito lo ebbi grazie a uno storico inglese con moglie torinese, Stuart Wolf, dell’università di Reading, un posto interessante ma periferico. L’inconveniente, quanto all’obiettivo di parlare inglese, consisteva nel fatto che stavo nel Department of Italian Studies nel quale la metà degli insegnanti erano italiani e l’altra metà coglieva l’occasione per praticare l’italiano con i visitatori. Comunque ero riuscito ad avere a Londra un appuntamento al Tavistock Institute: ci avevo passato un paio d’ore, ma la cosa era finita lì.

In Inghilterra sono tornato una decina di anni dopo, all’inizio degli anni ’80, a Cambridge (non la capitale del mondo per la Sociologia, ma un posto estremamente interessante e prestigioso). Avevo rapporti con Robert Blackburn, di cui avevo fatto tradurre e introdotto The Working Class in the Labour Market. BlackburnA Cambridge c’era l’allora giovanissimo Diego Gambetta, che è stato un mio laureato e che aveva avuto una borsa al King’s College, in un programma diretto da Jonathan Zeitlin. In quella occasione ho maturato alcune conoscenze, come quella di Jonathan Zeitlin, che poi, a grandi intervalli, mi hanno accompagnato negli anni successivi, e che sono state un tassello della mia scoperta del territorio, perché Zeitlin già allora lavorava con Sabel e si occupava di “alternative storiche al fordismo”.

Avere dei rapporti sociali amicali con gli inglesi non era facile. L’unico che da questo punto di vista ricordo con grandissima simpatia è Anthony Giddens, che allora era un giovanotto, già noto, e presto direttore del Department of Applied Economics (questo perché a Cambridge i sociologi – sociologi importanti come Goldthorpe, Giddens e altri – lavoravano in un dipartimento di Sociologia che però, dato che la Sociologia non era compresa nei quadri mentali di un cambridgeano classico, usavano l’espressione “applied economics”). Giddens mi aveva molto colpito per la sua gentilezza e per la sua estrema curiosità e simpatia: era uno capace di ascoltare e sembrava sinceramente interessato a sapere cosa studiavo e cosa succedeva in Italia.

Per i miei rapporti internazionali è stato importante soprattutto Franco Ferraresi, di cui ti parlavo prima: un amico che a me era molto simpatico (lo era meno ad altri colleghi, che lo accusavano di essere snob per la sua abitudine di parlare il suo eccellente inglese anche quando non era strettamente necessario, o di “ostentare” le sue relazioni internazionali). Quello che ho sempre apprezzato in Franco è stata la sua enorme e inconsueta disponibilità a mettere a disposizione questo suo patrimonio informativo e di relazioni, che ritengo abbia avuto un ruolo nello sprovincializzare un pezzettino di Sociologia torinese, nella sua internazionalizzazione, come si direbbe oggi. Nel mio caso la cosa ha funzionato in questo modo: Ferraresi era uno dei fondatori dello European Group for Organization Studies (EGOS) e grazie a lui ho partecipato alla fase fondativa (in prima battuta un po’ per caso, facendo il sostituto di Gallino). La sede della prima riunione/convegno, che era un castello nell’Ile-de-France di proprietà dell’EDF [11], l’aveva trovata Michel Crozier. Sociologia dell organizzazioneIl mio rapporto con l’EGOS è stato molto intenso per almeno dieci anni, e si è incrociato con l’inizio delle mie relazioni tedesche e con Wolfgang Streeck. Nell’EGOS c’era un forma di lottizzazione per paese: francesi, tedeschi e inglesi facevano la parte del leone, perché quelli erano paesi in cui c’erano davvero gli Organization studies (eravamo nel periodo delle “contingenze organizzative”); gli italiani erano pochissimo rappresentati, perché in realtà in Italia c’erano (e ci sono sempre stati) pochissimi organizational scientist puri, almeno tra i sociologi: a parte qualche rara eccezione come Butera, Bonazzi, Silvia Gherardi, Antonio Strati, la maggior parte sono persone come me, che si sono occupate anche di studi organizzativi. Comunque sia, un italiano ci voleva, e così sono entrato nel Comitato direttivo dell’EGOS, noto come “Super-EGOS”, del quale facevano parte quattro o cinque illustri studiosi. Sul versante francese c’era Crozier, come lontano padre nobile, e invece molto attivo Erhard Friedberg, che ho conosciuto in quel periodo. Questo periodo è stato cruciale negli studi organizzativi in Europa, e mi ha permesso di vedere da vicino cose che adesso stanno nei libri di storia del pensiero organizzativo, per citare Bonazzi [12].

L’esperienza EGOS è poi alle radici del mio periodo tedesco, perché tra i super-EGOS c’era Streeck, con cui ho subito simpatizzato. Simpatizzare con Streeck non è sempre facile, ma io mi ci ero trovato benissimo: lui era a quel tempo ricercatore senior al Wissenschaftszentrum Berlin für Sozialforschung (WZB) che era, ed è tuttora, un centro di ricerca importante; in quel periodo poi erano ricchi, e le loro risorse permettevano di facilitare, ospitare, viaggiare…

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