#3/2015 – CHIARA SARACENO con Manuela Naldini & Sonia Bertolini

Quanto ha pesato questa “scomunica” nella tua carriera?

Ne ho patito sul piano relazionale e della fiducia, ma è stata anche una esperienza produttiva intellettualmente, che mi ha permesso di aprirmi ad altre visioni del mondo, ad altre esperienze. RUSCONI SARACENOQuando Francesco Alberoni, che stava lasciando la Cattolica per motivi personali ed era stato chiamato a dirigere la facoltà di sociologia di Trento, chiese anche a me di andare con lui, accettai subito, rinunciando a fare il concorso per un posto di ruolo al liceo, per la promessa di un incarico annuale di collaboratore. Mi era chiaro già allora che l’offerta di Alberoni non aveva motivazioni di tipo accademico, di valutazione della mia competenza professionale, di fatto pressoché nulla in sociologia. Non mi conosceva, dato che non appartenevo al gruppo di giovani studiosi che aveva creato attorno a sé negli anni della Cattolica e di cui faceva invece parte mio marito (anche lui di formazione filosofica), anche se da qualche tempo stavo collaborando con quest’ultimo alle ricerche sui processi di secolarizzazione e i gruppi religiosi giovanili. Avevo curato la parte empirica della ricerca su Giovani e secolarizzazione ed avevamo lavorato insieme a quelle confluite nel volume Ideologia religiosa e conflitto sociale. Non appartenevo neppure al gruppo di giovani sociologi del lavoro e delle relazioni industriali che si raccoglieva attorno a Baglioni, di cui facevano parte Manghi, Cella e Romagnoli.BAGLIONI SARACENO Quella di Alberoni era un’offerta “al buio”, o sulla fiducia, per cooptazione e vicinanza, più che per diretta conoscenza. Perciò presi la mia chance e seguii i due gruppi (perché anche Baglioni si spostò) a Trento. E’ lì che è iniziata davvero la mia vocazione sociologica, anche se da principio mi fu chiesto di utilizzare le mie conoscenze filosofiche…

Com’è che diventi sociologa, quindi?

In sintesiALBERONI direi per merito, o colpa, o responsabilità, di Alberoni! Pur senza conoscermi a fondo, mi offrì la possibilità di andare a Trento in un periodo in cui sia il mio profilo professionale, sia la sociologia italiana erano in uno stato nascente (per restare in terminologia alberoniana) ed anche la mia vita famigliare era agli inizi: con mio marito ancora non avevamo figli, perciò eravamo più liberi, entrambi, di muoverci ed anche rischiare. Poi ho preso le mie strade, e gli argomenti, le ricerche di cui mi sono occupata nella mia carriera mi hanno plasmato, mi hanno fatto diventare la sociologa che sono oggi. Anche nella scelta dei temi da affrontare il caso ha avuto il suo peso. Direi che è stata una combinazione di incontri con persone significative e di occasioni talvolta del tutto impreviste.

In che modo ritieni che tua famiglia abbia influenzato la tua formazione ed il tuo percorso intellettuale?

Per i miei genitori, che si erano fatti da sé iniziando a lavorare giovanissimi (quasi bamCHILDHOODbini), lo studio era un importante strumento di emancipazione sociale. Mio padre si è laureato quando è nato il suo terzo figlio e mia madre la sera lo aiutava a ripassare; lei aveva fatto solo pochi anni di scuola, ma era coltissima e curiosa, oltre che molto creativa. Hanno trasmesso a tutti noi figli il valore dello studio e l’ambizione (anche la pressione) a riuscire bene negli studi, oltre che l’amore per la cultura, a prescindere dall’essere maschi o femmine. La differenza di genere contava per la divisione del lavoro domestico, ahimè, e per il diverso grado di libertà concesso nelle uscite serali e simili, ma non per quanto concerneva l’investimento nello studio e nella formazione culturale. Eravamo in tanti 1972 SARACENO(sei figli!), ma, mentre ci insegnavano la virtù della modestia, dell’attenzione nel consumo, del non sprecare nulla, erano molto liberali con tutto ciò che poteva arricchire la nostra formazione. Ci hanno anche trasmesso il valore dell’assumere rischi, di non adagiarci in strade sicure. Se, pur essendo genitori molto tradizionali dal punto di vista dei ruoli di genere, mi hanno incoraggiato ad andare un anno negli Stati Uniti, che non conoscevano e dove non mi potevano controllare, è proprio per l’altissimo valore che attribuivano al fare una esperienza formativa fuori dal comune. Per questo direi che dal punto di vista dei modelli di genere ho avuto una socializzazione famigliare a dir poco ambivalente, il che non mi dispiace: mi ha fornito le risorse sia per capire, sia per ribellarmi, sia per elaborare.

ereditàDirei che proprio curiosità, disponibilità a rischiare, tenacia sono i fattori che mi caratterizzano professionalmente. Delle prime due, che mi hanno consentito di cogliere le occasioni anche impreviste, sono in buona misura debitrice ai miei genitori e alla mia formazione famigliare. La tenacia, che mi ha consentito di non perdermi, viene dal mio forte senso del dovere e dal mio orgoglio: confesso che ho un forte senso di me, della mia dignità. Ci sono state e ci sono anche molte insicurezze, ma ciò che per me è sempre contato è non farmi mettere i piedi in testa da nessuno e per reazione ho sviluppato questo misto di orgoglio, senso del dovere, e a volte durezza che mi caratterizza e del quale in fondo non mi rammarico…

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