#1/2020 – RITA PALIDDA con Davide Arcidiacono e Maurizio Avola

In questa intervista a Rita Palidda, raccolta da Davide Arcidiacono e Maurizo Avola, emergono con vivida chiarezza gli intrecci tra il percorso accademico della studiosa, la sua militanza politica e i vincoli e le opportunità derivanti dal contesto in cui è maturata la sua riflessione sociologica. Sullo sfondo ci sono il ’68, le trasformazioni del contesto politico-istituzionale degli anni ’90, la riforma universitaria e la Grande Recessione. Questi eventi si snodano parallelamente a un grande impegno personale, profuso non solo all’interno dell’Ateneo catanese, ma anche nell’ambito dell’associazionismo civico e della comunità nazionale della sociologia economica. 

Come hai intrapreso il tuo percorso di lavoro in ambito accademico maturando l’interesse verso i temi della sociologia economica?

Il mio accesso al lavoro accademico è stato in parte frutto del mio lavoro di tesi, in parte del momento storico in cui mi sono laureata. Ero iscritta a lettere moderne all’Università di Catania, in un periodo in cui vi insegnavano importanti studiosi e mi appassionai particolarmente alla storia contemporanea, cattedra tenuta da Gastone Manacorda che riunì intorno alla disciplina un gruppo di allievi che avrebbero fatto strada nell’accademia. Ero stata sempre, e lo sono ancora, appassionata di letteratura (negli anni del ginnasio e del liceo ero un’assidua frequentatrice della biblioteca comunale della cittadina di provincia in cui studiavo da fuori sede, insieme ad alcuni dei miei numerosi fratelli e sorelle, sotto la sorveglianza stretta di una zia zitella che non permetteva usi alternativi del tempo libero). Scelsi, tuttavia, la tesi con Manacorda su un argomento, l’affermarsi del fascismo nella Sicilia orientale, su cui bisognava condurre una ricerca originale e che si legava in qualche modo alla mia militanza politica.

Dal movimento studentesco ero transitata, infatti, nei meandri dei gruppi alla sinistra del PCI che si scindevano continuamente con diatribe accanite che agitavano anche la convivenza con i miei due fratelli e la sorella con cui vivevo a Catania, poiché militavamo ognuno in un gruppo diverso. Il lavoro di ricerca presso l’archivio di Stato di Roma, le lunghe giornate di sfoglio dei giornali dell’epoca nella splendida sala settecentesca della Biblioteca Ursino Recupero di Catania mi misero davanti a uno spaccato politico-sociale dell’epoca, in buona parte inedito, che richiese un lavoro interpretativo che, oltre a ribadire la questione del dualismo Nord-Sud, evidenziò anche la complessità della storia e della società meridionale. Un approccio condiviso dal gruppo di giovani studiosi che iniziavano allora la loro carriera, tanto che qualche tempo dopo mi fu chiesto di fare del lavoro di tesi un saggio che confluì in volume collettaneo (G. Barone, S. Lupo, R. Palidda, M. Saija, Potere e società in Sicilia nella crisi dello Stato liberale).

Inoltre, nonostante nel corso della seduta di laurea, all’insaputa del prof. Manacorda, mi produssi in un estremistico attacco contro il riformismo socialista come responsabile dell’avanzata del fascismo, che suscitò un acceso dibattito con il mio correlatore, Giuseppe Giarrizzo, notissimo storico socialista, il mio relatore mi propose prima una borsa CNR, ma poi mi indirizzò verso le nuove opportunità che si erano aperte nella giovane Facoltà di Scienze Politiche in cui lui teneva un insegnamento. Fu così che ebbe inizio il mio percorso accademico.

A Catania, la nascita della Facoltà di Scienze Politiche nel 1969 ha rappresentano un’occasione importante per lo sviluppo della Sociologia italiana. Da qui sono passati in quella fase storica alcuni tra i maggiori sociologi e politologi italiani che hanno sviluppato in questo contesto le loro prime ricerche. Un momento di grande effervescenza, forse unico nell’intero panorama meridionale. Che aria si respirava a quel tempo? Come si intrecciava la ricerca accademica con l’impegno politico? Quali sono gli episodi che ricordi in maniera più vivida e come hanno influenzato il tuo percorso personale e professionale?

Partecipai a un bando per delle borse post laurea biennali presso l’Istituto di formazione e ricerca sui problemi dello sviluppo (ISVI), fondato dalla Facoltà di Scienze Politiche, con fondi Formez e associato al COSPOS, con il progetto ambizioso di una scuola di formazione multidisciplinare finalizzata ad avviare alla ricerca sul campo giovani laureati che provenivano da tutta Italia. Fu un’esperienza, scientifica e umana, straordinaria che proseguì poi con un contratto di ricerca che doveva durare massimo quattro anni, ma proseguì fino al 1981, quando fu possibile accedere all’idoneità per il ruolo di ricercatore. Gli allievi venivano da varie parti d’Italia, erano quasi tutti politicamente impegnati e il dibattito scientifico era strettamente intrecciato a quello amicale e ludico. I docenti che tenevano i corsi, provenienti quasi tutti dal Centro-Nord, erano per lo più giovani, brillanti, progressisti e avevano con gli allievi rapporti lontani dal modello maestro-barone che ancora dominava in una Facoltà pur giovane come Scienze Politiche che aveva fama di essere di “alternativa”. In quel periodo transitarono nei nostri seminari sociologi, economisti, politologi che erano o sarebbero diventati studiosi di altissimo profilo internazionale, tra cui Alberoni, Gallino, Reyneri, Moscati, Caciagli, Graziano, Draghi, Marradi, Leon, Fodor, Putnam. Ci fu data anche l’occasione di brevi soggiorni all’estero o in altri atenei italiani. Io andai per sei settimane a Londra per un corso di Lingue e a Pisa per uno di informatica. Eravamo, tuttavia, un gruppo troppo numeroso (il reclutamento avveniva ogni anno), i docenti erano per lo più pendolari e anche quelli che optarono per la stanzialità si attirarono l’ostilità non solo dei docenti delle altre discipline che si vedevano emarginati dalle opportunità fornite dall’ISVI, ma nel tempo anche quella del Preside Leonardi che vedeva minacciata la sua egemonia. La polemica contro l’Isvi fu portata avanti all’insegna della lotta alla privatizzazione della ricerca, argomentazione quasi scontata per ogni riforma dell’istruzione, anche se il fronte anti ISVI era alquanto singolare: gli studenti, per lo più di sinistra, e l’ala conservatrice della Facoltà, con qualche adesione socialcomunista. Anche se mi mancò un apprendistato rigoroso dei fondamenti teorici e metodologici della disciplina, le lezioni e l’esperienza di ricerca che seguì dopo segnarono non solo il sedimentarsi del mio interesse per la Sociologia economica e il lavoro accademico, ma mi indirizzarono verso due filoni di studio e ricerca che mi avrebbero accompagnato negli anni. Il primo era la questione del dualismo territoriale e delle politiche di intervento, il secondo il mercato del lavoro e la sua costruzione sociale. La ricerca sull’imprenditoria catanese e poi quella sul doppio lavoro, cui collaborai, metodologicamente furono esperienze importanti e sul piano teorico la prima segnò l’apertura alla letteratura socio-economica sui modelli di sviluppo e sul rapporto tra stato e mercato, la seconda, per me più nuova, l’avvio di un percorso di ricerca sul dualismo del mercato del lavoro e sui meccanismi relazionali e fiduciari dell’allocazione della forza lavoro. Quella sul doppio lavoro, inoltre, era una ricerca nazionale e mi permise di entrare in contatto con gruppi di lavoro di varie parti d’Italia (i miei contributi confluirono nei due volumi L’imprenditore assistito, a cura di R. Catanzaro, Il Mulino e Doppio lavoro e città meridionale, a cura di E. Reyneri, Il Mulino).

Ci sembra di capire che questo periodo di grande effervescenza e vivacità delle scienze politiche e sociali a Catania a un certo punto ebbe una svolta conflittuale…

Nel corso degli anni ottanta, finita la fase di effervescenza in cui era sembrato che la giovane Facoltà di Scienze Politiche di Catania potesse diventare il polo di studi e ricerca sociale speculare a quelli che si erano affermati al Nord, si consumò la rottura tra i giovani sociologi “forestieri” e Leonardi, che istituì un suo dipartimento disciplinare (Teoria e Metodi delle Scienze Sociali), in contrapposizione a quello interdisciplinare (Dipartimento di Analisi dei Processi Politici Sociali e Istituzionali, DAPPSI) che raggruppava studiosi di scienze politico-sociali su un progetto di analisi critica del mutamento sociale. I docenti di Sociologia generale e i metodologi con i loro allievi aderirono al dipartimento di Leonardi, quelli delle sociologie applicate (economia, lavoro, educazione, comunicazione e politica) confluirono nel DAPPSI. Si alzò una sorta di muro invalicabile tra gli studiosi dei due dipartimenti. Si sfaldò il dibattito teorico tra approcci olistici e individualisti, si interruppe il confronto sui temi e le metodologie di ricerca degli studiosi dei due dipartimenti. L’accusa di empirismo rivolta da Leonardi alle nostre ricerche non era infondata, anche se nel tempo l’approccio della “sociologia marxista” sarebbe risultato più fecondo del determinismo funzionalista che dominava in molte ricerche condotte dai sociologi generali (una docente di spirito libero che si orientò verso l’interazionismo simbolico si attirò critiche e ironie feroci dai colleghi). La divaricazione riguardava anche il modo di relazionarsi tra colleghi e, soprattutto, tra giovani studiosi e maestri, oltre che gli orientamenti politici e gli stili di vita. In quel periodo si trasferirono in altre sedi quasi tutti i docenti esterni che avevano insegnato a Catania e gran parte degli allievi che si erano formati nei primi anni dell’Isvi, sia quelli che venivano da fuori, sia alcuni dei giovani siciliani che cercarono opportunità in altre sedi. La rappresentanza sociologica al DAPPSI diventò estremamente esigua, mentre il gruppo di politologi era un po’ più nutrito e poté contare più a lungo sulla presenza di Franco Cazzola, che insegnò a Catania fino ai primi anni novanta, portando avanti anche un esperimento di collaborazione con l’amministrazione comunale del sindaco Bianco. Oggi penso che la cesura con i sociologi e metodologi dell’altro dipartimento abbia avuto effetti negativi per tutti, sia sul piano scientifico, che su quello della carriera accademica. Le discipline economico-lavoristiche, ad esempio, non furono previste nel dottorato di Sociologia attivato da Leonardi e solo dopo anni qualcuno dei nostri laureati poté accedervi, ma su tesi decise e seguite dai docenti di Sociologia generale, mentre altri furono ammessi al dottorato di Diritto del lavoro con cui negli anni abbiamo sperimentato momenti proficui di confronto scientifico. Al DAPPSI restammo Anna Cortese, Daniela Timpanaro ed io, le uniche a far riferimento all’area economico-lavoristica, stringendo un sodalizio di lavoro e amicizia, destinato a durare nel tempo, e insieme cercammo di mantenere i legami con i colleghi della disciplina a livello nazionale. Nel complesso, tuttavia, ricordo parte di quel periodo come una fase di apnea e di lontananza mentale dall’accademia, anche se partecipai alla fase di dibattiti e di scontri che accompagnarono la nascita dei Dipartimenti e ai tentativi largamente frustrati di inserire il progetto scientifico del DAPPSI in una gestione politica diversa dei problemi della città.

A proposito di impegno politico, la militanza nei movimenti degli anni settanta quanto ha influito nell’assunzione di una prospettiva di genere come scelta analitica “forte” che ha orientato tutto il tuo percorso di ricerca e le tue appartenenze associative?

La mia militanza femminista, che aveva sostituito alla fine degli anni settanta quella nei gruppi a sinistra del PCI, si consolidò negli anni ottanta, quando, peraltro, da una convivenza che solo dopo anni si trasformò in matrimonio, nacquero le mie due figlie. Da allora ho sempre fatto parte di gruppi femministi, sia pure con uno sguardo critico rispetto alle visioni essenzialiste del femminismo della differenza e all’irrimediabile lontananza da ogni analisi seria della molteplicità delle dimensioni della disuguaglianza che ha sempre caratterizzato il movimento femminista. Fu così che la prospettiva di genere cominciò a influenzare in modo determinante il mio percorso di ricerca indirizzandolo, negli anni Novanta all’analisi delle discriminazioni nel mercato del lavoro, ma anche della complessità dei percorsi di emancipazione femminile. L’occasione mi fu data prima dalla collaborazione a una ricerca CNR su Occupazione, disoccupazione e metamorfosi del lavoro, diretta da Giorgio Fuà dell’Università di Ancona. Fu un’esperienza di lavoro problematica, ma che mi permise di pubblicare nel 1992 e ’93 due articoli sulla rivista Politiche del lavoro (Donne e mercato del lavoro nel Mezzogiorno: ancora una componente debole, prima, Ancora sulla disoccupazione nel Mezzogiorno: disuguaglianze di genere e disuguaglianze socioculturali, poi), su sollecitazione di Paola Villa che avevo incontrato a un convegno, e uno su Sociologia del Lavoro nel 1995 (Vincoli e risorse temporali di giovani occupati e disoccupati meridionali).

Molto importante e gratificante fu, nel 1995-96, la direzione dell’unità locale di una ricerca 40% coordinata da Amalia Signorelli su Le componenti e i percorsi di emancipazione femminile nel Mezzogiorno. Le altre unità locali erano dirette da Anna Oppo e Simonetta Piccone Stella, con la quale avrei continuato a collaborare negli anni successivi. Fu la mia prima esperienza di ricerca qualitativa, seppur supportata dall’elaborazione di dati istituzionali, che mise in evidenza come dietro una condizione di uniforme svantaggio delle donne meridionali erano maturati in realtà profondi mutamenti e differenziazioni nelle strategie familiari, nella tenacia e nella capacità di inserimento nel mercato del lavoro. I risultati della ricerca furono raccolti in un volume della Liguori, Maternità, identità, scelte. I percorsi dell’emancipazione femminile nel Mezzogiorno, a cura di Oppo, Piccone Stella e Signorelli, per il quale scrissi due saggi. Temi che ripresi da lì a poco dirigendo l’unità locale di una ricerca 40%, Politiche, culture ed esperienze delle donne nell’Europa del ’900, coordinata da una grande storica femminista, Annarita Buttafuoco dell’Università di Siena, con cui condivisi momenti illuminanti di confronto.

Rita Palidda all’inizio della sua militanza nel movimento femminista catanese

Oltre alla prospettiva di genere nell’analisi del mercato del lavoro, il mio impegno civile nel movimento femminista influenzò il mio interesse scientifico per il tema della violenza sulle donne, sul quale diressi due ricerche a partire dal 2000 nell’ambito di un progetto nazionale, Progetto Pilota Rete Antiviolenza tra le città Urban Italia, promosso dalla Comunità Europea e dal Ministero delle Pari Opportunità. Si trattò di una ricerca pionieristica in Italia, condotta con una metodologia quali-quantitativa (una survey su 1000 donne e 300 uomini e una su un campione di operatori, interviste in profondità a donne vittime di violenza e a operatori sociali e della sicurezza). Nelle unità di ricerca che diressi io adottammo metodologie di ricerca rigorose e i risultati furono importanti sul piano scientifico e su quello delle ricadute sociali.

Nelle pubblicazioni che seguirono (tra queste il mio volume Dentro e fuori la famiglia per Franco Angeli del 2002) emerse chiaramente la multidimensionalità del fenomeno e il suo legame con un processo di cittadinanza incompiuta che non registra percorsi evolutivi unilineari e univoci. Alcune storie di vita di vittime di violenza non solo sono veri e propri brani di letteratura, ma evidenziano le potenzialità del rapporto tra ricercatore e intervistato che si realizza nell’indagine qualitativa, poiché questa mette in moto una doppia operazione riflessiva, facendo emergere, da una parte, ipotesi e stimoli interpretativi, dall’altra, capacità di scoprire fatti e motivazioni oscure allo stesso intervistato. La ricerca prevedeva la disseminazione dei risultati, ma fu il coinvolgimento delle giovani neolaureate che avevano condotto le interviste ad avviare l’istituzione di un centro Antiviolenza (Thamaia), con cui collaboro fin dalla sua fondazione, una realtà ormai consolidata e collocata nella rete nazionale DI.RE, con cui il Dipartimento e le istituzioni pubbliche locali collaborano stabilmente.

Il mio impegno sul tema della violenza continuò qualche anno dopo con la ricerca europea Daphne, promossa dall’Istituto Cattaneo di Bologna, Women’s Access to the Criminal Justice System: Barriers, Pitfalls and Resources, che indagò, in collaborazione con unità di altri paesi, sui percorsi di accesso alla giustizia delle donne vittime di violenza nelle relazioni di intimità. La metodologia fu ancora una volta qualitativa e quantitativa e implicò non solo una rilevazione dei casi di violenza nei fascicoli giudiziari, ma anche un ventaglio ampio di interviste in profondità a soggetti diversi e l’osservazione partecipante ai processi. Il coinvolgimento dei magistrati e delle forze dell’ordine portò alla promozione di una serie di misure finalizzate a rendere più efficace il sistema di indagine, di giudizio e di protezione delle vittime nei casi di violenza, anticipando delle prassi oggi divenute generalizzate, per lo meno in termini di linee guida dei sistemi giudiziari pubblici. I risultati della mia ricerca furono pubblicati in un volume del Mulino del 2012, Se le donne chiedono giustizia. Le risposte del sistema penale alle donne che subiscono violenza nelle relazioni di intimità: ricerca e prospettive internazionali, a cura di Giuditta Creazzo.

Nell’ambito degli studi di genere si colloca anche il mio impegno come coordinatrice delle otto edizioni (dal 2004 al 2012) dei corsi Donne, Politica e Istituzioni, promossi dal Ministero delle Pari Opportunità, che impegnarono docenti interni ed esterni al Dipartimento e coinvolsero centinaia di allieve (i maschi, pur ammessi, furono in numero assolutamente sparuto), studentesse, ma anche diplomate e laureate esterne. I corsi furono anche un’occasione di scambi di esperienze tra docenti di vari atenei, di coinvolgimento di giovani che svolgevano la funzione di tutor, di iniziative esterne rivolte alla città. Quell’esperienza lasciò un’impronta significativa sulla didattica universitaria in termini di prospettiva di genere, a cui contribuì anche la presenza nella nostra Facoltà di Graziella Priulla che da anni ha lavorato e lavora sul sessismo nel linguaggio e nella comunicazione. Nel 2012 raccolsi materiali didattici e di ricerca legati a questa esperienza in un volume: Donne, Politica e Istituzioni. Percorsi di ricerca e pratiche didattiche, Ed.It press, Firenze.

A dare visibilità alle questioni di genere nell’Ateneo di Catania contribuì il grande attivismo che negli anni 2000 caratterizzò il Comitato Pari Opportunità dell’Ateneo, di cui io feci parte dal 2001 a 2009 prima come componente, poi come Presidente. Ai seminari, convegni, presentazioni di libri affiancammo iniziative volte a promuovere la partecipazione di giovani laureate a scuole di formazione in altre sedi, borse di ricerca su temi di genere, stage per tirocinanti e misure di conciliazione per i dipendenti. Un’attività che dopo il mio mandato fu affossata dall’avvento di un Rettore e di un Direttore amministrativo che stravolsero gli stili di governo dell’Ateneo.

Rita Palidda con esponenti del movimento femminista nel 2014

Torniamo agli anni ’90, che rappresentarono un momento importante di cambiamento nel tuo percorso professionale.

Sì, in effetti, gli anni novanta rappresentarono una svolta nel mio impegno accademico e nei miei interessi di ricerca, ma a mutare fu il contesto stesso in cui lavoravo, la Facoltà e la situazione politica e sociale della città e della regione in generale.

Pino Arlacchi, dopo Giuseppe Fava e il gruppo de I Siciliani, aveva portato allo scoperto il ruolo della criminalità mafiosa nella crescita dell’imprenditoria della città. Della Catania del dopoguerra e dello sviluppo “drogato” dall’intervento pubblico, dai processi di urbanizzazione e dal sacco edilizio del quartiere San Berillo si erano occupati già alcuni politologi della Facoltà (Caciagli, Cazzola). Negli anni ’90 si aprirono però nuovi spazi per un contributo interpretativo e propositivo della sociologia economica, poiché sembrò che sulle macerie della crisi economica e politica, che non riguardava certo solo la città, potesse delinearsi un nuovo modello di sviluppo fondato sulla riqualificazione urbana e la coesione sociale, sulla presenza di poli di imprenditoria avanzata e sul coinvolgimento di attori portatori di interessi meno legati al blocco di potere che aveva governato nei decenni precedenti. Un riferimento fondamentale per la lettura della situazione del Mezzogiorno, dopo quarant’anni di intervento straordinario, fu il volume di Trigilia Sviluppo senza autonomia, che legava un’analisi dei termini del divario territoriale libera dalle retoriche della tradizione degli studi meridionalisti con un’ipotesi interpretativa forte delle cause che avevano portato al sedimentarsi di un sistema di convenienze territoriali e sociali che alimentava il circolo vizioso della dipendenza. Riferimenti teorici importanti furono anche la scuola economica napoletana, i contributi di economisti come Gianfranco Viesti, Enrico e Guglielmo Wolleb, o di storici come Bevilacqua e il gruppo siciliano (Salvatore Lupo e Giuseppe Barone). L’ipotesi che il modello di sviluppo locale, reso possibile dal mutamento degli scenari economici internazionali, dalle politiche di intervento europee e dal mutamento del quadro politico nazionale, potesse rappresentare un’alternativa alle politiche keynesiane del dopoguerra e agli effetti perversi che ne erano seguiti suscitò un grande interesse tra i sociologi e spinse anche me e i miei colleghi (Anna Cortese e Maurizio Avola) ad aderire alla proposta di Franco Cerase di una ricerca 40% su La regolazione concertata dello sviluppo locale (2002-2004). La ricerca riguardò l’esperienza di due Patti territoriali della provincia di Catania che, partendo da condizioni opposte in termini di tessuto economico e tradizioni politico-amministrative, avevano prodotto risultati divergenti e controintuitivi, evidenziando la rilevanza dello stile della leadership nella gestione della programmazione negoziata, delle buone prassi amministrative e della capacità di tenuta nel tempo.

I risultati della ricerca furono pubblicati prima in un volume collettaneo a cura di Cerase, Lo sviluppo possibile. Esiti e prospettive dei Patti Territoriali in quattro regioni meridionali, Franco Angeli, 2005 e poi in una monografia (M. Avola, A. Cortese e R. Palidda, Sfide e rischi dello sviluppo locale. Patti territoriali, imprenditori e lavoro in Sicilia, Franco Angeli, 2007).

La ricerca sul patto del Calatino Sud Simeto, uno dei pochi casi virtuosi della programmazione negoziata siciliana, fu anche l’occasione per un rapporto più duraturo con un’amministrazione illuminata che, oltre a coinvolgere me e il mio gruppo di lavoro in attività di formazione per i lavoratori in mobilità, ci affidò una ricerca-intervento sui centri per l’impiego dell’area, in una regione in cui il recepimento, molto tardivo, della riforma degli anni Novanta non aveva affatto mutato il ruolo meramente burocratico-certificatorio di tali servizi e che presentava uno scenario desolante di politiche attive del lavoro.

La ricerca comportò un grande lavoro di progettazione e affiancamento per la riorganizzazione dei servizi, a supporto di alcuni funzionari capaci e di grande buona volontà, ma credo che nel tempo, finita la stagione della programmazione negoziata e cambiato a destra l’orientamento della politica locale, i risultati siano andati in gran parte dispersi. Di quell’esperienza resta il volume: D. Arcidiacono, M. Avola, T. Briulotta, R. Palidda, Servizi per l’impiego e regolazione del mercato del lavoro in Sicilia, Ediesse, Roma, 2011.

La riflessione sul Mezzogiorno e la peculiare condizione socio-economica del contesto siciliano ha rappresentato un frame ricorrente della tua riflessione sociologica, non solo in quella stagione.

La situazione socio-economica della Sicilia ha continuato a essere un tema importante di ricerca negli ultimi vent’anni per me e il mio gruppo e ha inevitabilmente toccato la questione dell’influenza della criminalità organizzata sulla regolazione dell’economia. Le categorie analitiche della nuova sociologia economica, la teoria del capitale sociale e il neoistituzionalismo sociologico, hanno fornito utili strumenti interpretativi per un fenomeno che presenta caratteri di persistenza e innovazione.

L’ipotesi che la maggiore criticità nel rapporto tra mafia e imprese non sia oggi la violenza, ma la tessitura di reticoli collusivi variamente articolati, che trova frequentemente la sponda dell’apparato politico amministrativo e di un ceto di professionisti disposto a offrire i propri servizi dietro lauti compensi, è emersa con chiarezza da una ricerca della Fondazione RES svolta in tre regioni meridionali (diretta da Rocco Sciarrone), cui ho collaborato con voi. I risultati sono stati pubblicati nel volume Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno (a cura di Rocco Sciarrone, Donzelli, 2011). Più di recente abbiamo affrontato lo stesso tema con una ricerca molto articolata sulle estorsioni nella Sicilia orientale che ha analizzato il fenomeno dal punto di vista di una pluralità di attori coinvolti (imprenditori, forze dell’ordine, magistrati, associazioni non profit) evidenziando il differenziarsi delle risposte imprenditoriali ai condizionamenti mafiosi e l’emergere di significativi cambiamenti nella risposta delle istituzioni (D. Arcidiacono, M. Avola, R. Palidda, 2016, Mafia, estorsioni e regolazione dell’economia nell’altra Sicilia, F. Angeli).

Uno spazio importante della tua riflessione di ricerca è rappresentato dalla questione giovanile e il rapporto tra flessibilità e transizione alla vita adulta, in particolare per i giovani meridionali. Qual è stato il contributo più significativo agli studi su questo tema?

Dei giovani a rischio di esclusione e di devianza mi ero già occupata nei primi anni 2000 con alcuni saggi e articoli, in relazione a delle ricerche svolte nelle periferie urbane e sugli esiti della sperimentazione del reddito minimo di inserimento (R. Palidda, Giovani a rischio e nuovi processi di esclusione, in M. Rampazi, a cura di, Incertezza quotidiana. Politiche, lavoro e relazioni nella società del rischio, Guerini, 2002; R. Palidda et al., L’altra giovinezza. Percorsi di vita di minori a rischio e politiche sociali, F. Angeli; 2001; R. Palidda, Le politiche contro l’esclusione sociale e i paradossi del familismo, in Inchiesta, n. 149).

Il tema della flessibilità è stato uno dei più praticati dalla ricerca scientifica degli ultimi decenni e ha prodotto anche molte retoriche riguardanti le dimensioni e le conseguenze del fenomeno. Tra queste forse la più diffusa è quella di imputare alla flessibilità e all’incertezza del lavoro la moratoria nelle scelte di vita adulta e, in particolare, nelle scelte procreative. Si è posta questa domanda la ricerca Prin coordinata da Simonetta Piccone Stella nel 2005-2006 Lavoro flessibile e vita di coppia: quotidianità e scelte procreative, per cui ho coordinato l’unità di Catania. La metodologia adottata è stata qualitativa, ma per il volume pubblicato a Catania (R. Palidda, a cura di, 2009, Vite flessibili. Lavori, famiglie e stili di vita di giovani coppie meridionali, F. Angeli) Maurizio Avola ha curato un’interessante elaborazione dei dati istituzionali sulla flessibilità del lavoro in un’ottica di comparazione europea e interna Nord-Sud. La peculiarità emersa dalla ricerca locale, al di là delle differenze sociali nei caratteri e nelle conseguenze della flessibilità, è stata una dipendenza dalla famiglia di origine che si prolunga ben oltre l’assunzione delle scelte di vita adulta e un condizionamento a “volare basso” che non è certo favorevole a una via alta alla flessibilità. A risultati in qualche modo congruenti arriva un’altra ricerca Prin di qualche anno più tardi su Percorsi di lavoro e percorsi di vita degli operatori dei call center, che ha previsto una metodologia sia quantitativa, con una survey nazionale su un campione di operatori di call center, sia qualitativa con interviste in profondità ai lavoratori. La ricerca ha messo in discussione i paradigmi interpretativi univoci (neo-taylorismo o lavoro qualificato) su un fenomeno poco indagato in Italia, evidenziando l’influenza del modello italiano di flexinsecurity sugli orientamenti degli operatori e la rilevanza dell’interazione tra variabili istituzionali e profili socio-biografici individuali. I risultati, oltre che nel volume I call center in Italia, a cura di V. Fortunato e R. Palidda, Carocci, 2012, sono stati illustrati con un articolo uscito su International Review of Sociology: (Arcidiacono D., Avola M., Palidda R., Call centres and job satisfaction in Italy: employment conditions and socio-biographical patterns).

La tua attività di studiosa è stata accompagnata da un costante impegno istituzionale che ti ha portato a ricoprire numerosi incarichi in una fase di profondo mutamento del sistema universitario italiano.

Negli anni novanta cominciò il mio progressivo coinvolgimento sul piano istituzionale: oltre a quello di Sociologia economica mi venne affidato l’insegnamento di Sociologia della famiglia e dal 2001 (ero diventata intanto associata con un concorso svoltosi a Bari), in seguito all’attuazione delle due riforme 509/99 e 270/2004, assunsi la presidenza del corso di laurea triennale in Sociologia (e per un periodo di quello di secondo livello), che avrei tenuto per 14 anni, con le varie trasformazioni che seguirono. L’attuazione della riforma implicò un enorme lavoro di ridisegno della formazione universitaria e degli equilibri tra le discipline della Facoltà, in cui svolsi un ruolo importante di difesa della sociologia in generale e di quelle applicate in particolare, in una fase in cui mancavano voci autorevoli nel nostro ambito disciplinare. Le questioni cruciali poste dalla riforma erano coniugare, da una parte, la formazione di base con quella professionalizzante, dall’altra, la specificità disciplinare con l’interdisciplinarietà, tradizionale mission delle Facoltà di Scienze Politiche, ma allo stesso tempo obiettivo largamente condiviso nella nostra comunità scientifica. Nel corso di laurea in Sociologia esportai alcune buone prassi organizzative sperimentate nel Corso di Servizio sociale, e il Corso diventò il più numeroso dopo Scienze dell’Amministrazione, che aveva un vasto bacino di lavoratori studenti. Le sorti del corso di laurea specialistica furono più stentate, sia dal punto di vista del profilo formativo che del reclutamento, problema che è perdurato nel tempo per molti corsi di secondo livello degli atenei meridionali, che gli studenti abbandonano soprattutto per l’esiguità degli sbocchi occupazionali. Dopo qualche anno il venir meno dei requisiti di sostenibilità impose l’unificazione in un’interclasse del corso di Sociologia con quello di Servizio Sociale, che non giovò al profilo formativo dei due corsi, anche se ritengo che nel complesso l’esperienza di quegli anni possa considerarsi positiva, pur con tutte le criticità legate alle modalità di attuazione di una riforma che fu lasciata alla libera interpretazione degli atenei e sottoposta a continui, defatiganti e farraginosi aggiustamenti. Determinanti poi sono sempre stati i deficit socio-economici del contesto territoriale che agiscono negativamente a monte sui profili culturali e motivazionali degli studenti e a valle sulla spendibilità della formazione universitaria.

Le mie riflessioni sulla formazione universitaria, la riforma e il ruolo della sociologia hanno trovato spazio in alcuni articoli: Cortese, R. Palidda, V. Tomaselli, 1998, Rendibilità dell’istruzione universitaria nel Mezzogiorno: effetti perversi e funzioni positive, in “Rivista italiana di economia, demografia e statistica”, vol. LII n.3; A. Cortese, R. Palidda, M. Tomaselli, 1999, Investimenti in capitale umano e sviluppo: divari regionali e istruzione universitaria nel Mezzogiorno, in “Rivista italiana di economia, demografia e statistica”, vol. LIII n. 3; R. Palidda, 1999, Università del Sud e ruolo della sociologia, in R. Siebert, a cura di, Essere e diventare sociologi. Il piacere della sociologia trent’anni dopo il Sessantotto, Rubbettino; E. Marzano, R. Palidda, 2010, Strategie di ricerca, tempi di ingresso e caratteristiche dei laureati, in Consorzio Universitario Alma Laurea, Investimenti in capitale umano nel futuro di Italia ed Europa, vol. I, Il Mulino, Bologna; R. Palidda, 2014, La difficile regolazione del sistema universitario italiano. Sociologi a confronto, in “Sociologia del lavoro”, n. 135.

Un percorso didattico in grado di offrire un supporto alla formazione universitaria, in direzione di una maggiore professionalizzazione e spendibilità nel mercato del lavoro, ha riguardato l’attivazione di Master di primo e secondo livello. Ho insegnato in vari master e ne ho coordinato alcuni, ma spesso si è trattato di iniziative che finivano per replicare pezzi di insegnamento universitario o per fare dei patchwork disorganici di contributi di professionisti esterni. Un’eccezione è rappresentata dal Master Customer care e tutela dei consumatori che ho attivato nel 2008 con la collaborazione di Davide Arcidiacono e ho diretto fino al 2016, potendo sempre contare sul contributo didattico di professionisti di molte importanti aziende pubbliche e private italiane e su un discreto placement degli allievi.

In questo ambito di interessi, per il Convegno nazionale di Consumers’ Forum del 2013 ho svolto insieme a Davide Arcidiacono una ricerca la cui sintesi è stata pubblicata su “Sociologia del lavoro”, n. 139 (D. Arcidiacono, R. Palidda, 2015, Liberalizzazioni e regolazione pubblica tra isomorfismo e resilienza: il caso italiano).

Tra i diversi incarichi ricoperti sei stata anche membro della commissione ASN. Cosa pensi di questo processo, se lo compari con i precedenti meccanismi di selezione e carriera all’interno del sistema accademico italiano? Ritieni che abbia prodotto degli effetti virtuosi?

La partecipazione alla Commissione è stata molto impegnativa poiché quasi tutte le tornate, tranne le ultime due, sono state affollatissime ed è stato veramente complicato formulare un giudizio, anche perché dopo le prime tornate molti candidati erano non strutturati, quindi meno conosciuti. Ritengo che sia stato un errore mantenere tutte e cinque le tornate anche per i successivi bienni, sia perché sarà difficile smaltire in tempi ragionevoli i passaggi di carriera dei già abilitati, sia perché i piccoli numeri dei candidati dei bienni successivi possono costituire un incentivo per una minore selettività.

Per quanto riguarda la mia esperienza, nonostante tutti gli sforzi fatti per essere equanimi ed equilibrati, è probabilmente inevitabile che si siano potute verificare défaillances nei giudizi, ma nel complesso ritengo che il sistema di valutazione dell’ASN sia abbastanza trasparente e meritocratico, a prescindere dal problema della qualità media della produzione scientifica nel suo complesso sollevato da qualche studioso. I curricula e i giudizi sono pubblici e, quindi, sottoposti in qualche modo allo sguardo della comunità scientifica. Il fatto poi che le chiamate degli atenei siano aperte a tutti gli idonei, per quanto non annulli il vantaggio del candidato locale, di cui poi legittimamente l’Ateneo ha interesse a tesaurizzare competenze e disponibilità, salvaguarda il principio della competitività. L’introduzione di indicatori per l’ammissione alla valutazione, anche se pone pur sempre il problema della loro perfettibilità e interpretazione, indubbiamente è stato un forte incentivo alla crescita della produttività scientifica e, in particolare, alla sua proiezione internazionale. Il rischio è che si verifichi una corsa all’accumulo di pubblicazioni e che la produzione scientifica si modelli su quanto richiesto dagli indicatori, al di là dei reali interessi e capacità degli studiosi. Una spia in tal senso è probabilmente l’eccesso di isomorfismo nei temi delle pubblicazioni dei candidati. In particolare, le migrazioni e, in subordine, la flessibilità del lavoro, temi indubbiamente di grande attualità, erano presenti in modo spropositato tra le pubblicazioni dei candidati delle tornate a cui ho partecipato. Va comunque riconosciuto ai giovani che di fronte ad una crescita della competitività hanno reagito sviluppando grande motivazione e capacità di lavoro.

La tua carriera ti ha visto impegnata in prima persona con ruoli di responsabilità all’interno dell’AIS, prima, e della SISEC, poi. Cosa pensi di queste esperienze e, in particolare, della scelta di istituire un’associazione autonoma? Alla luce della conclusione del primo triennio, quale bilancio fai della nuova associazione?

I miei interessi di ricerca mi spinsero negli anni Novanta ad aderire alla sezione AIS-Vita quotidiana, in cui allora c’era grande attenzione ai temi di genere e alle metodologie qualitative, ma anche uno stile di lavoro meno “accademico”. Dal 1996 al 2002 per due mandati feci parte del direttivo della sezione e nel 1999 organizzai a Catania un convegno nazionale con un singolare titolo “Sociologia perché, per chi”, scelto da Laura Balbo che era Presidente della sezione e in quel periodo fu per breve tempo ministra delle Pari Opportunità. Ne raccolsi gli atti nel volume: R. Palidda (a cura di), 2002, Fare sociologia. Paradigmi conoscitivi ed esperienze sul campo, Guerini.

Negli anni successivi, tuttavia, la sezione fece una decisiva torsione in senso culturalista, per cui tornai alla sezione ELO, a cui peraltro avevo continuato ad aderire come seconda opzione, e tra il 2009 e il 2015 feci parte per due mandati del direttivo con le presidenze di Negri e di Bottazzi. Nel 2011, durante il primo triennio organizzai nel mio Ateneo il Convegno Nazionale AIS ELO “Il nodo del lavoro. Mercati, istituzioni, Politiche” e ne raccolsi gli atti insieme a Maurizio Avola (I sociologi e il nodo del lavoro, Sociologia del lavoro, n. 126, 2012). L’abbandono di ELO e il passaggio alla SISEC che avvenne nel 2015 con la Presidenza Bottazzi fu forse un po’ affrettato e per certi aspetti irrituale, tuttavia maturava già da tempo e ne è seguita una sorta di esplosione di energia positiva testimoniata dal successo delle iscrizioni e delle iniziative di questi anni. C’è stato un ricambio generazionale nell’associazione e negli organi direttivi e una partecipazione mai vista prima al dibattito scientifico sui temi proposti dai convegni con papers e interventi, soprattutto di giovani. Anche la scuola estiva mi sembra un’ottima iniziativa e di grande responsabilità nei confronti dei giovani. Devo dire, tuttavia, che trovo i convegni troppo affollati di sessioni e presentazioni, dispersivi e faticosi da seguire, ma so che ormai è lo stile prevalente in tutti i convegni e so anche che l’alternativa di convegni più piccoli e frequenti su specifici temi è costosa in termini di tempo e denaro.

Come continua il tuo impegno di ricerca dopo il pensionamento?

Dal pensionamento, libera dai defatiganti impegni organizzativi, ho continuato a insegnare a contratto Sociologia economica e a lavorare su due temi che si legano ai miei interessi di ricerca pregressi. Uno riguarda il lavoro gratuito e il suo contributo al benessere e al funzionamento dell’economia formale, tema che interseca sia la questione delle disuguaglianze di genere, sia quella della concezione del benessere e dei suoi indicatori. La disponibilità di dati sui bilanci tempo, pubblicati dall’Istat, con riferimenti anche al contesto europeo, rappresenta uno strumento di analisi prezioso, che ho utilizzato per la riflessione che ho condotto in un saggio e in un articolo (Palidda R., 2018, Produrre e riprodurre. Oltre la conciliazione, in R. Biancheri e G. Spatari, La situazione italiana a un quarto di secolo dalla Conferenza di Pechino, ETS Edizioni, Pisa e R. Palidda, 2020, Lavoro gratuito e disuguaglianze di genere in “SocietàMutamentoPolitica”, in corso di pubblicazione). Del secondo tema, le migrazioni, mi sono occupata più volte nel corso degli anni 2000, con delle ricerche sull’inserimento lavorativo di mauriziani e sry-lankesi, sulle dinamiche competitive tra immigrati e manodopera locale e sull’associazionismo degli immigrati, nell’ambito di collaborazioni con la fondazione ISMU e con la collana Stranieri in Italia (M. Avola, A. Cortese e R. Palidda, 2003, Risorse, reti e progetti, in M. La Rosa, L. Zanfrini, a cura di, Percorsi migratori tra reti etniche, mercato del lavoro e istituzioni, F. Angeli; M. Avola, A. Cortese e R. Palidda, 2005, I confini mobili di una competizione invisibile, in M. Lombardi, a cura di, Percorsi di integrazione degli immigrati e politiche attive del lavoro, F. Angeli; R. Palidda e T. Consoli, 2006, L’associazionismo degli immigrati tra solidarietà e integrazione, in F. Decimo e G. Sciortino, a cura di, Stranieri in Italia. Reti migranti, Il Mulino).

Recentemente con Anna Cortese e Maurizio Avola ho condotto una ricerca sulle comunità tunisine e rumene che lavorano nella serricoltura del ragusano. Una ricerca qualitativa complessa che ha coinvolto migranti, imprenditori e testimoni privilegiati, in un contesto di agricoltura specializzata orientata all’esportazione che esprime una vivace domanda di lavoro che incontra ormai prevalentemente un’offerta straniera. La ricerca ha permesso in parte di verificare ipotesi classiche degli studi sui migranti (quali l’assunzione di modelli di regolazione del lavoro permeati da forme varie di irregolarità, la segmentazione del mercato del lavoro; la successione ecologica tra etnie e il dumping salariale, la via bassa alla flessibilità), in parte ha evidenziato effetti imprevisti della stratificazione civica tra stranieri comunitari e non e dell’assunzione di modelli emancipativi da parte delle migranti dell’Est. I risultati parziali sono stati anticipati nell’articolo Cortese A., Palidda R., 2018, Concorrenza imperfetta. Strategie competitive di migranti tunisini e rumeni nell’agricoltura intensiva del ragusano, in “Mondi Migranti”, n. 2. Di prossima pubblicazione con F. Angeli è il volume conclusivo della ricerca scritto in collaborazione con Maurizio Avola e Anna Cortese.

In conclusione, posso dire che se è difficile riflettere sul proprio passato, poiché affiorano mille rimpianti e ripensamenti, ancor più difficile è accettare che non restano larghi margini di riprogettazione. La sensazione che ha dominato nella mia generazione di donne e nel mio milieu culturale è di poter sempre decidere “cosa farò da grande”. Oggi, per quanto messa a dura prova dallo scoprirmi di far parte delle “anziane fragili”, confido ci siano ancora spazi per immaginare confini possibili da valicare.

Noi siamo certi che l’impegno di Rita Palidda per la sociologia economica italiana andrà avanti e accompagnerà la SISEC nei prossimi anni. Con l’ingresso tra i probiviri della nostra associazione per il triennio 2020-2022, infatti, saprà fornire un contributo importante per il consolidamento della nostra comunità scientifica.

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