#1/2022 – ENRICO PUGLIESE con Giustina Orientale Caputo

In questa intervista Enrico Pugliese ricostruisce insieme a Giustina Orientale Caputo, la sua biografia personale e di ricerca, mostrando il filo rosso che lega le prime esperienze di ricerca presso la pioneristica Scuola di Portici, incentrate sulle trasformazioni agrarie e del lavoro nelle campagne meridionali alle successive riflessioni sui modelli di disoccupazione e sulle dinamiche migratorie. Lungo tutta l’intervista, emerge la centralità dell’inchiesta sociale e del lavoro sul campo come metro imprescindibile della ricerca sociologica. 

 

Io partirei da Castrovillari. Tu nasci in una famiglia borghese – tuo padre era avvocato – come hai deciso di iscriverti ad agraria? Che idea avevi della trasformazione del paese e del tuo possibile ruolo?

Devo confessare che negli anni di liceo non avevo una particolare idea sulla trasformazione del paese. Ero già genericamente di sinistra e certamente antifascista anche per l’influenza del solito “cattivo maestro”, un eccellente professore di filosofia molto competente che ci trasmetteva non solo le sue conoscenze ma anche valori democratici. Però non mi iscrissi alla Facoltà di Agraria di Napoli (Portici) per aiutare a cambiare il mondo, mi iscrissi con la prospettiva di fare un mestiere diverso da quello di mio nonno, di mio padre, del mio bisnonno – quello che vedi dietro le mie spalle è il diploma di laurea di quest’ultimo conseguito presso l’Università degli Studi di Napoli sotto Ferdinando II di Borbone. Volevo fare qualcosa di diverso, qualcosa che io ritenevo – paradossalmente ma non sbagliavo – più moderno in un’epoca in cui agraria, agricoltura etc. davano una idea di arretrato. Scelsi una facoltà tecnica in contrasto con l’orientamento umanistico dominante nell’ambiente dal quale provenivo.
Arrivato a Portici conobbi subito due giovani già culturalmente e politicamente impegnati e interessati a uno dei temi fondamentali della politica dell’epoca cioè la questione meridionale: Carlo Tagliacozzo mio coetaneo e Andrea Ginzburg qualche anno più anziano di noi e più avanti negli studi. La loro influenza culturale – in particolare di Carlo con il quale un ininterrotto confronto quotidiano dura da allora – fu per me molto importante. Grazie a loro e soprattutto grazie al Professore Manlio Rossi-Doria a Portici maturai l’interesse per il Mezzogiorno che non ho mai abbondonato.

Parliamo di questi tuoi primi anni a Portici.

Non erano anni difficili. La disoccupazione intellettuale, piaga del Mezzogiorno, si era andata riducendo. La mia generazione è stata una generazione fortunata. Non abbiamo conosciuto la disoccupazione dei giovani laureati di oggi ed abbiamo trovato lavoro subito non perché fossimo bravi o più capaci ma perché la situazione era ricca di opportunità in parte anche nel Mezzogiorno. Io mi laureai il 5 marzo del 1965 e il 15 del mese successivo, ebbi la lettera di assunzione da parte del direttore del Centro di Ricerche Economico- Agrarie di Portici e quindi cominciai la mia ‘carriera’ di dipendente dell’Università.
Portici è stato per decenni un posto importante per gli studi sul Mezzogiorno, compresi quelli sociologici. Già nei primi anni di università mi accorsi di non essere molto interessato alle materie strettamente tecniche: mi interessavano poco le piante e molto i contadini. Mi laureai in scienze agrarie ma la tesi di laurea si intitolava “Le trasformazioni socio-economiche di un comune del Mezzogiorno: Castrovillari” (che era appunto il mio paese di provenienza). Il relatore fu Manlio Rossi-Doria – che è stato il mio punto di riferimento etico e scientifico per tutta la mia vita e al quale, negli anni della sua vecchiaia, fui legato da una grande amicizia. Devo molto anche a Gilberto Marselli, collega sociologo, che nel seguirmi nella tesi (come assistente di Rossi-Doria) mi insegnò molte regole e pratiche della ricerca empirica a partire dalla selezione e l’uso del materiale statistico, alla presentazione dei dati, alla cura redazionale di un testo. Ma assorbii tramite lui altri contenuti della formazione rossi-doriana negli anni di università.
Quella formazione aveva molte dimensioni: Rossi Doria era anche portatore e rappresentante di una antica tradizione meridionalista di importanti inchieste fondate su indagini dirette, ‘sporcandosi le scarpe’, come diceva lui. E in quella tradizione c’era anche un forte contenuto di impegno etico e civile.
A Portici cominciai il mio lavoro di sociologo già durante la tesi come collaboratore indigeno di professori americani che venivano al Centro con borse Fullbright o finanziamenti della Ford Fundation perché Portici era un grande porto di arrivo per chi voleva studiare il Mezzogiorno.

Ma questo periodo dura poco perché poi tu vai negli Stati Uniti.

 Nel ‘67 feci domanda per una borsa Fulbright. Stavo per accettare l’offerta di andare in un Dipartimento di Economia Agraria a Terre Haute nello Stato dell’Indiana quando mi arrivò la notizia che avevo ottenuto anche una borsa Harkness, molto più prestigiosa e sostanziosa, e decisi di accettarla. La borsa dava la possibilità di scegliere l’Università e il Dipartimento dove studiare o fare ricerca e io scelsi la Columbia University. Non perché in quel momento Columbia fosse classificata al primo posto nella valutazione dei Dipartimenti di Sociologia – lo era ma questo non c’entra. La scelsi con grande ingenuità perché era a New York. Ma mi andò bene lo stesso.

Già il viaggio per N.Y. fu un’esperienza interessante poiché la Harkness faceva viaggiare tutti i borsisti in un’unica nave per farli familiarizzare. E in quell’occasione conobbi un’altra persona, per me importante, destinata a diventare un giornalista famoso, Tiziano Terzani, con il quale stringemmo una grande amicizia e per un anno – frequentando la stessa università e abitando vicini – ci incontrammo quotidianamente. Tiziano era più anziano ed era già una sorta di corrispondente dall’America dell’Astrolabio.

Columbia era importante per lo studio della metodologia della ricerca sociale. Lazarsfeld era stato lo studioso di punta in questo ambito e all’epoca aveva già scritto tutte le sue opere principali. Tra queste anche il celebre The Academic Mind, un’indagine sugli effetti del maccartismo nelle università americane: un libro importante non solo per i suoi contenuti ma anche perché sul piano metodologico introduceva l’analisi della struttura latente. La grande creatura di Lazarsfeld era il Bureau for Applied Social Research dove si conducevano ricerche empiriche di grande rilevanza e dove lavoravano alcuni dei più dedicati professori di Columbia. Io frequentai volentieri i loro corsi.

Ma c’erano anche grossi nomi come Merton e due professori giovani, Hopkins e Wallerstein, molto popolari tra gli studenti.

 E la tua borsa durava un anno? Cosa studiasti?

La mia borsa durava due anni, però io terminai il master al quale mi ero iscritto in un anno e all’inizio del 1969 mi trasferii a Davis in California.

Ne parleremo più in avanti.  Rispondo invece subito alla tua domanda su cosa studiai a Columbia.

Seguii i corsi standard liberi e obbligatori per il master e tra i primi mi interessai a quello di psicologia sociale tenuto all’epoca da Richard Christie. Erano gli anni in cui molto si discuteva su La personalità autoritaria, il famoso studio di Theodor Adorno e collaboratori [T. W. Adorno, E. Frenkel-Brunswik, D. Levinson, N. Sanford, The Authoritarian Personality, 1950]. E Christie era stato curatore insieme a Marie Jahoda di un’antologia critica su quella grande ricerca (Studies in the scope and the method of the Authoritarian personality). L’obiettivo dello studio di Adorno – come è noto – era quello di individuare gli elementi che possono indicare una diffusione di atteggiamenti autoritari e una propensione degli individui al fascismo. Lo strumento di rilevazione finale era la scala F (F come fascismo) che misura il grado di concordanza con affermazioni indicative di atteggiamenti tipici di una mentalità fascista. Questi ultimi andavano da convinzioni antisemite a una visione complottista della politica, ad atteggiamenti aggressivi nei confronti del gruppo esterno, al disprezzo per le minoranze a cominciare dai neri, ad atteggiamenti punitivi, a un atteggiamento nei confronti dei capi definito ‘sottomissione autoritaria’. Per gli autori la sistematica coesistenza in individui intervistati di questi atteggiamenti che non avevano una forte relazione tra di loro richiedeva più che una spiegazione logica una spiegazione di tipo psicologico. Quella coesistenza rivelava qualcosa di più profondo che semplici convincimenti di origine culturale o ideologica: doveva esserci qualcosa avente a che fare con la personalità e le radici della formazione di quel tipo di personalità. Gli autori   individuavano queste radici nel carattere autoritario del processo educativo e formativo in particolare nella famiglia.

Da La Personalità Autoritaria gemmarono molte ricerche su quegli atteggiamenti ‘patologici’, come l’aggressività o l’intolleranza o la punitività etc., che facevano registrare un risultato comune: la più alta adesione alle affermazioni che riflettevano quegli atteggiamenti si concentrava tra gli intervistati appartenenti alle classi sociali più basse. Risultato per altro registrato già tra gli intervistati nello studio di Adorno, che però aveva ben altri meriti.

Grazie alle lezioni di Christie e alla sua supervisione della mia tesi, avevo imparato a trovare la matrice di questi errori che stavano non solo nel modo in cui erano formulate le domande dei questionari ma anche nel ritenere che certe risposte che esprimevano semplici opinioni fossero indicative di atteggiamenti radicati. Inoltre, non si teneva conto di come le risposte di soggetti appartenenti a diverse classi sociali esprimevano non tanto effettiva differenza di opinioni e soprattutto di atteggiamenti ma anche il differente modo di verbalizzare, di esprimere in maniera più socialmente accettabile l’effettivo atteggiamento.

Intorno a questa tematica io lavorai parecchio e poi pubblicai un saggio, che in realtà era la mia tesi di master, dal titolo ‘Working Class Authoritarianism and Attitudinal Surveys’, tendente a dimostrare questa distorsione a sfavore delle classi più basse nelle ricerche su vasta scala sugli atteggiamenti che si conducevano in quel periodo in America. Lo studio fu pubblicato dalla rivista International Review of Community Developement ed è citato con apprezzamento nella introduzione di Giovanni Jervis all’edizione italiana de La Personalità Autoritaria pubblicata dalle Edizione di Comunità.

E qui finì la mia formazione sociologica di base e finì anche l’interesse per la psicologia sociale, sempre con una certa punta di nostalgia. Per incidens devo dire che quegli studi mi servirono molti anni dopo per capire quello che succedeva in Italia nei confronti degli immigrati. In particolare, ci sono ritornato soprattutto nella seconda metà dello scorso decennio quando in Italia si scatenò, anche con grandi responsabilità politiche e istituzionali, un’ondata di intolleranza e malevolenza nei confronti di immigrati e rifugiati che mi fece pensare come il rischio della diffusione dell’autoritarismo è sempre in agguato nelle nostre società.

E il tuo ritorno, gli studi sull’agricoltura?

 In realtà sono due domande distinte. In effetti il mio ritorno agli studi sull’agricoltura comincia ancora in America. A gennaio del 1969, dopo aver consegnato la tesi, partii per Davis (UCD) uno dei Campus dell’Università della California dove un collega, Isao Fujimoto, che avevo conosciuto al congresso dell’American Sociological Association durante l’estate del 68, stava conducendo studi sulla condizione dei lavoratori agricoli immigrati e migranti all’interno dello Stato. Da questo punto di vista quegli anni erano molto interessanti perché si stava organizzando il sindacato dei braccianti agricoli aderente all’American Federation Labour e c’era una grande mobilitazione a favore della United Farm Workers Organizing Commitee. Isao e il suo gruppo studiavano il modello organizzativo del lavoro dell’agribusiness e le condizioni dei lavoratori migranti compreso il controllo del mercato del lavoro da parte di una sorta di caporali, i ‘coyotes’, che organizzavano anche gli ingressi clandestini dal Messico. In America mi resi conto di come poteva essere possibile la coesistenza in agricoltura di uno sviluppo tecnologico avanzato con un’organizzazione del mercato e in parte anche dell’organizzazione del lavoro assolutamente arcaiche. L’osservazione del modello californiano mi diede molti stimoli per lo studio del mercato del lavoro agricolo al mio ritorno in Italia.

E quando dieci anni dopo una borsa Fullbright per professori mi diede l’occasione di un nuovo soggiorno in America ripresi questi studi presso l’Università della California a Santa Cruz in collaborazione con il collega che mi ospitava, William H. Friedland (Bill). Studiavamo il lavoro agricolo con un’ottica rivolta alla organizzazione del lavoro e alle relazioni sindacali. Fui molto influenzato nel periodo passato in California e negli anni successivi da Friedland, che aveva introdotto l’idea di una ‘sociologia dell’agricoltura’ che si basava molto sulla tradizione di studi sulle relazioni industriali. Era stato Enzo Mingione a farmi conoscere personalmente Bill, che aveva raccolto intorno a sé un congruo numero di giovani studiosi riuscendo a far accettare all’American Sociological Association o all’Isa (non ricordo bene) la formazione di uno specifico research commitee. E sull’organizzazione del lavoro continuai a studiare insieme a Bill e insieme a Mena Furnari, una cara amica ricercatrice di Portici che morì molto giovane.  

Torno indietro al 1969 per rispondere alla prima parte della tua domanda.

Dopo il mio ritorno in Italia ebbi l’incarico di professore di sociologia rurale alla Facoltà di Agraria dove avevo studiato e decisi di riprendere gli studi sull’agricoltura e il mercato del lavoro agricolo.  

In quel periodo ci sono grandissime trasformazioni nell’agricoltura italiana. C’è un’avanzata del movimento bracciantile in Italia: molte cose stanno cambiando, i salari sono aumentati anche grazie all’emigrazione che aveva alleggerito la pressione sulla terra. Non mancava neanche una risposta repressiva alle mobilitazioni bracciantili. C’è la coda di un grande e tumultuoso esodo dei braccianti, contestuale con quello dei contadini. Eppure, tutto questo non riusciva comunque a soddisfare l’offerta di lavoro agricolo locale. Il nesso tra l’agricoltura e il mercato del lavoro, non solo agricolo, fu al centro dei miei interessi in quegli anni di intensa collaborazione con Giovanni Mottura.

Con lui partecipammo a un importante dibattito che coinvolgeva molti economisti e sociologi soprattutto giovani e riguardava la questione del “calo del tasso di attività della popolazione”, la riduzione della partecipazione al lavoro delle persone in età lavorativa. Il dibattito che fu molto ricco nasceva da un apparente paradosso: il fatto che nel corso degli anni ‘60, erano andate diminuendo contemporaneamente occupazione e disoccupazione. Il che dovrebbe essere paradossale, a meno di una terza soluzione che è quella che la gente si ritirava al mercato del lavoro. Una tematica centrale nel dibattito, che aiutava a comprendere anche quel paradosso, era il fatto che molte donne che prima avevano lavorato in agricoltura o in piccole attività artigianali locali emigravano al seguito dei loro mariti – che entravano nelle fabbriche e nell’edilizia – e così diventavano casalinghe. In realtà la storia risultò essere un po’ più complicata perché molte di queste donne apparentemente fuoriuscite dal mercato del lavoro e divenute ufficialmente casalinghe, lavoravano al nero. Il dibattito proseguì per buona parte degli anni ’70, ma già a partire dal 1974 un fenomeno nuovo riguardò il Paese: il rientro delle donne nel mercato del lavoro se non proprio nell’occupazione. Giovanni ed io partecipammo a quel dibattito partendo sempre dall’ottica delle trasformazioni dell’agricoltura e del Mezzogiorno, sottolineando la questione dell’eccedenza di forza lavoro nelle regioni meridionali, che anche nei momenti di espansione non riusciva a trovare uno sbocco se non parziale nell’emigrazione in Italia e all’estero.

Torniamo alle tue ricerche su campo a Napoli, vuoi specificare quali erano gli oggetti di studio e con chi le hai realizzate?

Napoli negli anni ’70 è un grande laboratorio per studiare il mercato del lavoro e la struttura dell’occupazione dai più vari punti di vista. Se da un lato si vede la prosecuzione del lavoro nero e della disoccupazione, dall’altra c’è una grande novità positiva rappresentata dall’estendersi dell’occupazione nelle fabbriche medie e grandi che occupano lavoratori giovani spesso anche scolarizzati, il conseguente emergere di una nuova classe operaia industriale e una nuova realtà sindacale. Ciò è il risultato del flusso di investimenti pubblici e privati nell’industria secondo gli orientamenti di politica economica per il Mezzogiorno in auge in quegli anni. Si determinò così una situazione di dualismo nella struttura economica e nella comparazione messa in evidenza da alcuni studiosi a partire da Augusto Graziani.

Questa interpretazione dualistica ci convinse molto. Nel frattempo, con Mottura approfondiamo l’analisi anche del lavoro nero che in quegli anni perdeva le connotazioni tradizionali dell’economia del vicolo così come descritta dalle inchieste degli anni ‘50 tra le quali ricordiamo quella di Luongo e Oliva (Napoli com’è) ripresa – devo dire con una certa ingenuità – persino da Percy Allum nell’importante studio su Potere e Società Napoli nel Dopoguerra. In realtà il lavoro nero è stato sempre presente nella città e quindi chi studiava il mercato del lavoro non poteva non misurarsi con questo.

A partire dalla seconda metà degli anni ’70, e soprattutto nel corso degli anni ’80, una tematica di rilievo occupò l’interesse di molti sociologi e diversi economisti: quella dell’economia informale.

A mio avviso ci fu una notevole confusione a proposito del termine economia informale, per cui lavoro nero e lavoro creativo, super- sfruttamento e scambio di lavoro gratuito venivano posti sotto la stessa definizione, visti come espressione di un unico processo caratterizzato da un prevalere della soggettività. Nel 1984 un numero monografico di Inchiesta dal titolo Se la diversità è un valore, tentò di chiarire la questione proponendo una distinzione radicale tra economia informale di mercato e economia informale non di mercato. Ma l’idea prevalente era che il lavoro nell’informale fosse frutto di una scelta e questo convincimento riguardava anche intellettuali raffinati.

In realtà nel Mezzogiorno il lavoro regolare mancava e il lavoro informale, anzi il lavoro nero, era una scelta forzata come denunciava il movimento dei disoccupati napoletani in atto in quegli anni.

Ci furono anche degli episodi molto importanti che mostravano il carattere nuovo e al contempo arcaico del lavoro ‘informale’. A metà degli anni Settanta a Napoli ci fu un grave incidente che mise a nudo la questione. Vennero ricoverate in ospedale delle giovani lavoratrici del settore calzaturiero colpite da polinevrite da collante e per reazione ci furono delle lotte e mobilitazioni riguardanti le condizioni di queste lavoratrici occupate al nero in precari laboratori malsani; mobilitazioni che videro anche una partecipazione attiva di giovani medici del lavoro e di altri studiosi. La nostra ricerca sul settore calzaturiero e le condizioni del lavoro, pubblicata su Inchiesta, ebbe una certa notorietà e suscitò polemiche. Se ne occupò anche una trasmissione televisiva dell’epoca che si chiamava ‘Scatola aperta’. Questo per quel che riguarda il lavoro nero.

Le ricerche sul mercato del lavoro a Napoli e in Campania mi impegnarono come attività principale tra la seconda metà degli anni ‘70 e gli anni ‘80: un periodo nel quale ebbi un intenso rapporto di collaborazione con il sindacato. In quegli anni era stato creato a livello nazionale l’istituto di ricerca della Cgil per iniziativa di Bruno Trentin. E diverse sedi regionali, tra cui la Campania, seguirono l’esempio istituendo l’Ires regionale. Io fui nominato direttore di quello di Napoli. Avemmo una ricca attività di ricerca e diversi collaboratori. Tra quelli più impegnati ricordo Patrizia Cotugno, Maria Liguori e Susi Veneziano allora neolaureate.

Contemporaneamente nella prima metà degli anni ‘70 aveva cominciato a far capolino la disoccupazione giovanile che divenne il grande problema del decennio successivo. Nel suo aumentare, essa assumeva nel nostro paese una triplice dimensione: di genere, di età e territoriale: la disoccupazione italiana cominciò a essere meridionale, femminile, giovanile e con una componente significativa scolarizzata.

Ma ancora negli anni Settanta quali erano le altre relazioni significative che intraprendi con colleghi e studiosi che in quel momento frequentano il Centro?

Agli inizi degli anni ‘70 Portici è un luogo molto importante, per l’economia agraria e per l’economia dello sviluppo e vi si conduceva ricerca sociologica. C’era ormai da oltre dieci anni un corso, una sorta di master anti litteram. Il Centro si chiamava Centro di Specializzazione e Ricerche Economico Agrarie per il Mezzogiorno e per quel che riguarda la formazione c’erano due indirizzi paralleli, uno in economia agraria e l’altro in economia. Il leader degli studi di economia agraria era Michele de Benedictis mentre Augusto Graziani, col quale io ebbi qualche occasione di collaborazione, era il responsabile dell’area economica.

A Portici avevano insegnato molti docenti di prestigio italiani e stranieri. Il Centro era stato anche un luogo importante per l’introduzione dei metodi di analisi quantitativa in economia. Questo elemento, questa caratteristica dell’istituzione alla quale appartenevo, non mi riguardava in maniera particolare ma era determinante per molti miei giovani colleghi e amici economisti che frequentavano il Centro come borsisti e ricercatori.  Comunque, la cosa più importante di quegli anni per me fu la collaborazione con Giovanni Mottura, con il quale era cominciato un sodalizio ancor prima della mia partenza per l’America, un sodalizio che è tuttora in atto.  

Mottura veniva dall’esperienza dei Quaderni Rossi che avevano un certo interesse per la sociologia. Raniero Panzieri, che era l’ispiratore dei Quaderni Rossi, aveva l’idea secondo la quale per una corretta azione politica, in quel periodo  di imponenti trasformazioni e di difficoltà per il movimento operaio, bisognava avere una capacità di comprensione di questi cambiamenti sociali e che l’approccio giusto fosse quello dell’inchiesta, cioè di un metodo di indagine e di ricerca sociale libero da pregiudizi, che fosse motivata sicuramente da un impegno  politico e che considerasse quello che i sociologi chiamano ‘oggetto di ricerca’ come un interlocutore della ricerca dal quale si poteva apprendere. Mottura veniva da questa formazione, io invece avevo una formazione sociologica di tipo convenzionale acquisita in America e l’impronta meridionalista di Portici. Eravamo molto complementari e scrivemmo un libro frutto del nostro lavoro di quegli anni Agricoltura, Mezzogiorno e mercato del lavoro pubblicato dal Mulino. Devo dire che la maggior parte dei testi contenuti nel volume erano già usciti su Inchiesta, la rivista fondata nel 1970 da Vittorio Capecchi col quale c’era un rapporto strettissimo.

Il lavoro trattava temi ed era fondato su un approccio solitamente estranei alla sociologia dominante in quegli anni. Il punto più di rilievo della nostra analisi riguardava l’interpretazione del ruolo dell’agricoltura nello sviluppo della moderna società capitalistica, partendo dal caso italiano. Anche sulla base della documentazione statistica sull’occupazione agricola a partire dai primi censimenti dell’Italia unita, tentavamo di portare avanti la tesi relativa all’esistenza di due principali funzioni dell’agricoltura: quella effettivamente produttiva e quella di sede dell’esercito industriale di riserva (della sovrappopolazione relativa latente secondo la definizione marxiana). L’una o l’altra funzione dominavano a seconda della situazione economica e della fase di sviluppo del Paese. Descrivevamo inoltre i cambiamenti nella struttura sociale dell’agricoltura e soprattutto i motivi che spingevano a un grandissimo esodo quale era quello in corso a partire dal dopoguerra. Il libro infine voleva essere una ripresa del dibattito sulla questione agraria che aveva un’antica tradizione nella sinistra e nel movimento operaio.

Quegli anni di Portici furono molto ricchi. In molti tra borsisti e ricercatori del Centro e qualche laureando avevamo costituito un gruppo informale unito da comuni interessi culturali e impegno scientifico e politico. Ci sentivamo studiosi ma anche militanti e le due cose erano strettamente intrecciate. Il lavoro politico ci dava uno stimolo per la nostra attività di ricerca facendoci vedere aspetti e dimensioni della realtà che altrimenti ci sarebbero sfuggiti. Al contempo il lavoro scientifico sulle tematiche incontrate nell’azione politica ci aiutava nella pratica permettendoci di evitare superficialità e scelte preconcette. E l’amicizia rendeva tutto questo più interessante e piacevole.    

Molti sono gli ‘studiosi militanti’ di quel periodo con i quali per decenni e fino ad oggi sono rimasto in contatto. Voglio ricordarne per motivi diversi solo due: Carmine Nardone con il quale abbiamo continuato a interloquire sulla questione agraria e il Mezzogiorno e Stefano Boffo con il quale a più riprese abbiamo condotto insieme ricerche e che come me è ora associato all’Irpps dopo aver insegnato a Roma e a Napoli.

E le ricerche su Napoli e il mercato del lavoro?

Mi impegnai molto negli anni ‘80 nello studio delle reali condizioni dei disoccupati a Napoli nelle periferie e nel centro storico. Lavoravamo nei Quartieri Spagnoli con l’intento di capire in che modo la gente riuscisse a sopravvivere e scoprivamo che alcuni, pochi, potevano considerarsi occupati perché avevano una qualche occupazione ‘al nero’. Partivamo dall’assunto che la situazione meritasse spiegazioni più complesse. Era allora invece convinzione diffusa soprattutto fuori da Napoli che non di veri disoccupati si trattasse ma di finti tali o di delinquenti che avevano ben altre fonti di reddito.

Io ebbi dalla Regione Campania l’incarico di condurre una ricerca sulla composizione della disoccupazione. Avevamo a nostra disposizione una vasta disponibilità di dati di base relativi a un universo di giovani disoccupati iscritti presso liste speciali all’ufficio di collocamento di Napoli. Il titolo che avevamo dato alla ricerca era “Che lavoro fanno i disoccupati” e alla fine suddividemmo gli intervistati in: disoccupati-disoccupati, disoccupati-occupati, disoccupate-casalinghe e disoccupati-studenti. I primi erano giovani senza lavoro e in attiva ricerca di un lavoro qualunque. I secondi, erano una minoranza e tra loro i più adulti erano quelli che pur nel lavoro nero avevano trovato i posti migliori, perché il lavoro nero era esso stesso stratificato e per i più giovani erano disponibili solo i posti peggiori. Poi c’erano gli studenti che in mancanza di un lavoro continuavano a essere iscritti a scuola o che, nonostante studiassero, avevano bisogno di lavorare, infine c’erano le ragazze che non avevano una piena identità lavorativa ma dividevano il proprio senso di sé tra l’identità di casalinga e quella di effettiva lavoratrice senza lavoro. E per quanto riguarda la sopravvivenza, a parte il fatto che dominava una situazione di grande povertà, essa era garantita dalla solidarietà parentale. Negli anni successivi il lavoro di ricercatrici come Enrica Morlicchio e Dora Gambardella mostrò come il “familismo coatto”, il vivere in famiglia con i genitori, permetteva il sostentamento a volte grazie alle pensioni o altri redditi di parenti più anziani. Negli anni recenti la retorica dei falsi disoccupati, come è noto, si è tramutata nella retorica dei falsi poveri.

Si era intanto formato intorno alle ricerche sul lavoro un gruppo all’interno del Dipartimento di Sociologia – che ancora non era Facoltà ma Corso di laurea della Facoltà di Lettere. Il gruppo era costituito, oltre che da me, da Enrico Rebeggiani, da Giustina Orientale Caputo e soprattutto Enrica Morlicchio. Ma avevamo anche collegamenti con altri giovani studiosi dell’Università di Napoli e soprattutto occupati in enti pubblici in particolare la Regione.

Prima ancora di questa indagine nella seconda metà degli anni ‘70 mi ero impegnato nell’osservazione e lo studio del movimento dei disoccupati a Napoli, che in quel periodo rappresentava un fenomeno di grande interesse politico e sociale. All’inizio avevamo lavorato insieme a Fabrizia Ramondino, antica amica e grande interlocutrice. Il suo interesse in seguito si concentrò sulla vita e la storia dei protagonisti con un approccio di inchiesta ma anche letterario. Il movimento dei disoccupati a Napoli: i protagonisti raccontano edito da Feltrinelli è stato il suo primo libro. Come è noto, Fabrizia divenne poi una scrittrice di grande livello e notorietà. Io continuai con il mio approccio sociologico.

Siamo alla fine degli anni ’80 e tu cominci quella serie di riflessioni e di studi che ti porteranno poi a scrivere Sociologia della disoccupazione (il Mulino 1996) il testo che per molti versi tu consideri un punto importante del tuo percorso e della intera tua produzione scientifica. Ci spieghi perché?

Sì, all’epoca mi occupai anche sul piano teorico della disoccupazione. Cominciai collaborando a un numero speciale sulla disoccupazione di Social Research la rivista della New School for Social Research di New York. Il mio articolo si intitolava The three forms of unemployment. Il punto di riferimento di base era la disoccupazione operaia quella della moderna società industriale e quella più studiata soprattutto negli anni ‘30, ma il mio convincimento era che la disoccupazione aveva una storia ben più lunga.

Le tre forme in cui la disoccupazione si esprime, corrispondenti a differenti epoche, sono la “disoccupazione di chi ancora non è operaio”, cioè la disoccupazione che ancora non si chiama così. Si tratta del prodotto della disgregazione delle strutture produttive tradizionali, a partire dall’agricoltura. Si tratta del frutto della mobilizzazione di una parte della sovrappopolazione relativa che si traduce ad esempio nelle grandi migrazioni verso le città e poi nelle grandi migrazioni all’estero.

Ma molto più importante per quel che riguarda il processo di produzione della disoccupazione è quello che mette in evidenza Polanyi ne La grande trasformazione con riferimento alla riforma delle leggi sui poveri in Inghilterra quando, introducendo la distinzione tra “povero meritevole” e “povero non meritevole” (persona senza lavoro in buone condizioni fisiche), si tolse a questi ultimi ogni possibilità di accedere ai sussidi destinati ai poveri. Così – scrive Polanyi – il disoccupato si affaccia sulla scena della società. Ma il fatto che i disoccupati esistessero già non significa che la loro esistenza di persone senza lavoro – e senza oggettiva possibilità di trovarlo pur essendo in buone condizioni fisiche – venisse riconosciuta. Per definire quello che noi chiameremo oggi disoccupato si usava il termine idle che in generale in inglese significa pigro. In altri termini chi è disoccupato lo è a causa della sua pigrizia.

Ci volle parecchio tempo perché si affermasse il concetto di disoccupazione come condizione involontaria. A parte Hobson, è Wlliam Beveridge – Il futuro teorico de welfare state – che nel saggio   Unemployment: a Problem of Industry sottolinea come la disoccupazione sia qualcosa di strutturalmente legata alla società industriale. In essa ci sono dei momenti in cui la disoccupazione ha luogo per difficoltà che vivono le imprese e non per la scarsa disponibilità di lavoratori ad accettare qualunque condizione di lavoro.

La seconda forma della disoccupazione è quella della moderna società industriale e rappresenta un momento eccezionale della vita lavorativa degli operai per i quali la condizione di occupato è quella normale.

Infine, la terza forma è quella che si esprime ora, all’epoca del precariato di massa, la disoccupazione del postfordismo, la disoccupazione intermittente che riguarda sempre più vaste fasce della popolazione.

 E il libro?

 Il volume aveva un approccio molto particolare. Ne avevo cominciato a parlarne prima. Il suo obiettivo in partenza era quello di studiare la disoccupazione nella storia e nella geografia e soprattutto di prendere in considerazione l’ottica delle diverse discipline che se ne erano occupate.

Io pensavo – e penso – che se si capisce un po’ di economia e un po’ di psicologia, si può meglio capire la disoccupazione, le sue cause i suoi effetti. Perciò ai diversi approcci dedicai diversi capitoli nel libro. La comprensione della disoccupazione è favorita da un approccio multidisciplinare e questo fu lo sforzo che io feci in Sociologia della disoccupazione. Studiai molto gli anni ‘30 e in particolare mi occupai dello studio su I disoccupati di Marienthal e – d’accordo con uno degli autori, Marie Jahoda – curai l’edizione italiana.

Mentre studiavamo la disoccupazione a Napoli e il modello mediterraneo della disoccupazione, insieme ai miei allievi continuammo a tenere vivo questo approccio storico e comparativo con riferimento soprattutto all’Europa e agli anni ‘30. D’altronde tu stessa hai continuato questa tradizione anti-localistica che ci permetteva, proprio partendo dal nostro contesto di inchiesta, di dare dei contributi di sociologia storica. Non a caso hai scritto un libro sulla disoccupazione negli anni Trenta. Il lavoro è stato molto importante per capire le varie dimensioni della disoccupazione, le sue costanti e come essa muta del tempo e nello spazio.

Per inciso devo dire che Sociologia della disoccupazione fu tradotto anche in francese ed edito dalla casa editrice L’Harmattan.

Poi nel 2002 sono ritornato alla disoccupazione e su altre tematiche del mercato del lavoro – mi permetto una piccola pausa didattico-divulgativa – perché con Enzo Mingione pubblicammo un manualetto che si chiama Il lavoro. Ce lo chiese Carocci e fu un libro di scarse pretese, molto legato alla fase. Era passata la riforma dell’Università, c’era il problema di produrre manuali che fossero adeguati anche a corsi brevi, agili e che non costassero molto, intesi soprattutto per i corsi triennali. Infatti, la collana dove pubblicammo era Le bussole: Le bussole per orientarsi. Il libro ebbe molte ristampe il che mostra che deve essere stato apprezzato. Facemmo una seconda edizione dieci anni dopo ma ora per molti versi risulta attempato. Perciò abbiamo deciso di farne una nuova edizione completamente riscritta con aggiornamenti e tematiche emerse nel corso del ventennio passato.

Sempre sulla disoccupazione ma questa volta con uno sguardo specifico al mercato del lavoro italiano c’è Occupazione e disoccupazione in Italia dal ‘45 ad oggi il libro che scrivi con Enrico Rebeggiani che prende Sociologia della disoccupazione a fondamento ma poi racconta lo sviluppo del mercato del lavoro in Italia, didatticamente un connubio perfetto.

Non esageriamo.  Ma anche questo è un libro al quale sono molto affezionato. Come si vede nel titolo c’è solo la data iniziale, il terminus a quo, mentre non è indicato a quale anno si riferisce quell’oggi: l’edizione è del 2004, in altri termini arriviamo alla vigilia della grande crisi che inciderà profondamente sulla struttura del mercato del lavoro. Ma nel 2004 si erano già completamente dispiegati quei processi di flessibilizzazione e riduzione delle garanzie di stabilità per i lavoratori. Insomma, il terzo tipo di disoccupazione si intrecciava profondamente con il precariato.

Ma non era questo il punto più importante del libro. Ciò che mettemmo in evidenza è una caratteristica immanente al sistema produttivo e sociale italiano per cui non si riesce mai a trovare una effettiva via per superare l’eccesso di offerta di lavoro, perché la domanda di lavoro si evolve in modi tali da lasciare sempre insoddisfatta una parte dell’offerta in forma esplicita o nascosta. Il che spiega il fatto che l’Italia non ha mai smesso di essere paese di emigrazione anche quando è stata -come è ora – paese di immigrazione.

Certamente ci sono molte spiegazioni: c’è innanzitutto la tesi della segmentazione del mercato del lavoro che ci spiega la contemporanea presenza di disoccupazione e di immigrazione o di emigrazione e immigrazione. Il libro scandisce l’evoluzione della struttura del mercato del lavoro in Italia per periodi corrispondenti ai diversi decenni intercensuari e mostra le forme in cui l’eccesso di offerta si esprime.

Nel dopoguerra essa ha avuto come espressione la povertà contadina, la disoccupazione nascosta nella famiglia contadina. In seguito si è presentata anche come miseria urbana accompagnata al lavoro nero o come disoccupazione esplicita giovanile, oppure come disoccupazione nascosta nelle famiglie con lo scoraggiamento della forza  lavoro femminile e  la riduzione delle lavoratrici a ruoli di casalinghe, oppure infine – sempre parlando della componente femminile – si è mostrata come disoccupazione esplicita femminile da quando le giovani donne sono entrate nel mercato del lavoro nella seconda metà degli anni ‘70 restando però frustrate nella loro aspirazione al lavoro.

Poi per molto tempo fino a tempi recentissimi e agli interventi di prolungamento dell’età di pensionamento, lo squilibrio quantitativo si è espresso attraverso la fuoriuscita precoce degli anziani. Ora viviamo la terza forma della disoccupazione che, come dicevo, si esprime soprattutto come precarietà occupazionale, forma caratteristica del mercato del lavoro postfordista.

Ma negli anni ‘90 però sono partiti i tuoi studi e quindi le tue ricerche – una delle prime è in Campania all’inizio degli anni ‘90 – sull’immigrazione.

Sì, tra l’altro questo mi fa pensare molto a come sono lenti i sociologi su alcune cose. Se escludiamo la Critica Sociologica di Ferrarotti, le riviste e i libri di sociologia hanno faticato parecchio a prendere in considerazione e vedere questo fenomeno nuovo nella società italiana. È, infatti, il gruppo intorno a Ferrarotti e a Maria Immacolata Macioti che conduce, agli inizi degli anni Ottanta, un’indagine di campo pubblicata dalla Siares. Della rilevanza della immigrazione si sono resi conto invece abbastanza presto i demografi. Naturalmente ne hanno compreso la rilevanza gli operatori sociali e comunque i soggetti impegnati nell’assistenza in particolare religiosi. Mi riferisco, per quel che riguarda Roma, alla Caritas diocesana di Don Luigi Di Liegro. Ma prima che l’emigrazione entrasse nell’agenda politica e negli interessi di ricerca degli studiosi è passato parecchio tempo. Ci furono sicuramente dei pionieri anche tra sociologi spesso in contatto con i demografi.

Per quel che mi riguarda, Francesco Calvanese ed io entrammo a far parte di un gruppo finanziato dal CNR e coordinato dal CISP – l’antenato del Irpps-Cnr che poi io ebbi l’onore di dirigere per otto anni – al quale parteciparono tredici università italiane pubblicando altrettanti libri, tutti con lo stesso titolo: L’immigrazione straniera…. in (con l’indicazione del nome della Regione a seguire). Francesco Calvanese ed io curammo quello sulla Campania [L’immigrazione straniera in Campania, Angeli 1990].

Il lavoro di campo venne svolto da un gruppo di laureandi, tra i quali mi piace ricordare Elena de Filippo che ha rappresentato poi a Napoli il punto di riferimento centrale per gli studi e gli interventi sociali sull’immigrazione. Alla ricerca parteciparono alcuni colleghi del Dipartimento, tra cui Enrica Morlicchio e Enrica Amaturo che condussero un’indagine basata sulle corrispondenze multiple che metteva in rapporto provenienza geografica, genere, religione e tipo di occupazione. Ne venne fuori un quadro della struttura occupazionale dell’universo degli immigrati caratterizzata da segregazione occupazionale in base al genere ma anche in base all’etnia di appartenenza. I risultati furono presentati in un articolo che uscì sulla Critica Sociologica.

Frutto dell’interesse per questa tematica fu l’inizio della collaborazione con Maria Immacolata Macioti con la quale pubblicammo uno dei primi testi sull’argomento dal titolo gli Immigrati stranieri in Italia edito da Laterza che ebbe due edizioni molto ristampate. Per il libro mi occupai soprattutto del mercato del lavoro e degli aspetti quantitativi del fenomeno cercando di contrastare le ingiustificate paure relative alla portata del fenomeno e alla presunta incombente invasione da parte degli immigrati o alle implicazioni che il fenomeno avrebbe avuto per il mercato del lavoro e la composizione dell’occupazione degli italiani. Per quel che riguarda questo punto cercai di mettere in evidenza l’importanza del ruolo della domanda in un processo di internazionalizzazione e segmentazione della domanda di lavoro, echeggiando la tesi di Saskia Sassen in The mobilty of labour and Capital.

Su questo stesso tema ritornammo quasi dieci anni dopo – in quel periodo mi ero già trasferito all’Università di Roma – sempre con Maria Immacolata Macioti aggiornando la documentazione presente nel primo studio e soprattutto approfondendo una tematica che aveva avuto poco spazio nella prima edizione: la questione dei rifugiati che era andata prendendo sempre maggior rilievo nel corso degli anni 2000 e che esploderà in anni ancora più vicini.

         

 A seguito dei tuoi studi sul welfare condotti nell’epoca della tua direzione dell’IRPPS, cominci ad occuparti di anziani. Ci vuoi raccontare come ci sei arrivato e quali sono le riflessioni che hai maturato e che hanno portato a scrivere il tuo libro sulla terza età?  

 Nel 2002 mi viene affidata la direzione dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali (Irpps). L’istituto nasce dalla fusione di due altri istituti, uno dedicato alle ricerche demografiche compresi gli studi sulle migrazioni, l’altro dedicato appunto agli studi su welfare e politiche sociali. Sono questi gli ambiti di studio ai quali mi dedico negli ultimi due decenni.

In verità io sono arrivato alla problematica degli anziani sempre partendo dalla questione di fondo al centro della mia storia di ricercatore: quella del lavoro. Cominciai a occuparmi di anziani non tanto come un problema di welfare e politiche sociali o per gli aspetti demografici della questione. Il mio interesse partiva dall’osservazione della riduzione progressiva della partecipazione degli anziani al mercato del lavoro, fenomeno non certo esclusivamente italiano perché il contemporaneo aumento della popolazione anziana e la riduzione della incidenza degli occupati per effetto dei pensionamenti anticipati si verificava in tutta l’Europa. Ma in Italia il numero degli anziani fuori dal mercato del lavoro aumentava molto più che in qualunque altra parte dell’Europa.

L’Italia era divenuta uno dei paesi ‘più anziani’ del mondo, a volta superato dal Giappone, paese con il quale mostrava molte sorprendenti analogie, tra cui appunto il repentino processo di invecchiamento. Ciò però con una grande differenza, consistente nel fatto che il tasso di attività degli anziani in Giappone era, ed è, molto, molto più alto che in Italia.

Secondo molti studiosi – in particolare francesi – nei paesi occidentali caratterizzati dal modello sociale europeo – si andò verificando in quegli anni una sorta di intesa perversa tra datori di lavoro e sindacati dei lavoratori a spese dello Stato per cui per garantire il benessere dei lavoratori anziani si puntò più sulle pensioni che non sulla possibilità di mantenere occupati i lavoratori più avanti negli anni.

Studiando questi aspetti, come ad esempio l’invecchiamento attivo, la mia ottica si è allargata e ho studiato le varie dimensioni della problematica degli anziani: quindi ho guardato alla relazione fra anziani e famiglia, anziani e socialità ed altro mettendo in luce diverse dimensioni del fenomeno e i problemi connessi. Abbiamo avuto una lunga fase di aumento dell’aspettativa di vita e anche dell’aspettativa di vita in buona salute. Ma questo non esaurisce il problema della condizione di vita e soprattutto della solitudine degli anziani.

E di tutto questo si trova traccia nel mio libro La terza età. Un titolo che non diedi io, che in realtà non tiene conto dell’idea, ormai accettata, in base alla quale dobbiamo parlare di terza e quarta età, che secondo la definizione di Peter Laslett, è quella ‘della dipendenza’. La terza età – secondo questo autore – negli anni di sviluppo dei sistemi di welfare per un lungo periodo è stata una buona condizione, grazie alle politiche sociali e in particolare a quelle previdenziali. Si poteva avere col pensionamento una discreta condizione di vita, non ci si doveva più occupare dei figli perché nel frattempo essi pure trovavano lavoro. La quarta età non ha un momento anagrafico di inizio: la quarta età è appunto quella della dipendenza.

Ma poi più di recente cambiano come è noto molte cose: e la fase felice della terza età illustrata da Laslett tramonta. In ogni caso, il reddito degli anziani – non si può negare – in Italia è stato garantito dal sistema pensionistico ed ha finito per svolgere anche un ruolo importante nell’economia delle famiglie, aiutando spesso i membri più giovani e in difficoltà in un mercato del lavoro sempre più precario.

Per quel che riguarda socialità e cura, il sistema italiano resta fondamentalmente quello familistico ma esso acquista caratteristiche nuove. Mentre prima il sistema si basava sul lavoro gratuito di cura da parte dei componenti della famiglia – cioè delle componenti femminili della famiglia (la figlia, la nuora, la moglie, la cognata) – successivamente le cose cambiano: la famiglia svolge sempre meno un ruolo di cura diretto degli anziani e passa a un ruolo indiretto, passa a coordinarne la gestione. L’anziano è sempre meno parte integrante della famiglia, vivendo spesso anche da solo nella sua casa, ma anche se risiede con i familiari la responsabilità della sua cura è di un altro personaggio: quello che si chiama con un termine cui nessuno è riuscito a trovare una alternativa nel linguaggio colloquiale, la (o il) badante.

Nel welfare mix italiano per quel che riguarda la cura degli anziani abbiamo tre attori con responsabilità e funzioni diverse: lo Stato, il mercato, la famiglia. Quest’ultima, come ho detto, non fornisce più materialmente il servizio di cura, ma lo gestisce. Entra così in campo il mercato, perché è sul mercato del lavoro internazionale che si trovano i soggetti disponibili a fornire lavori di cura: è questo il fenomeno del care-drain che ha attivato molti flussi migratori a composizione femminile. Chi paga questo servizio che la famiglia gestisce? Per ora è in gran parte lo Stato, ovviamente in maniera indiretta, attraverso le pensioni (e altre forme di sussidi) degli anziani e i risparmi spesso accumulati grazie alle stesse pensioni. Io non riesco a immaginare come potrà evolversi questa situazione. Quanto potrà durare ancora il sistema del badandato. In letteratura ci sono molte soluzioni e molto proposte alternative, ma gli esperimenti proposti sono spesso molto astratti.

Questo per quel che riguarda il rapporto tra anziani e cura. Ma il libro tocca moltissimi aspetti a partire dall’evoluzione della condizione del ruolo degli anziani nella società nei diversi momenti storici, alla questione della storica povertà degli anziani, vinta grazie ai pensionamenti, alla loro collocazione nei diversi contesti urbani e nazionali, alle definizioni varie, ma mai incontrovertibili, che sono state date al concetto di anzianità e in particolare del momento di inizio che non può essere basato sull’età anagrafica.

Nel frattempo, mi sono trasferito a Roma quale titolare della cattedra che era stata di Massimo Paci, mio antico interlocutore nell’ambito degli studi sul lavoro sul welfare. Ci fu un passaggio di consegne e Massimo mi affidò i suoi dottorandi e collaboratori impegnati in un filone di ricerche sulle politiche di attivazione e sul welfare a livello locale. In quest’occasione cominciò la mia collaborazione con Andrea Ciarini attualmente professore alla Sapienza.

Ma oggi sei tornato ad occuparti di migrazioni. Quali sono le nuove acquisizioni e le nuove dimensioni che tu osservi del fenomeno delle emigrazioni dall’Italia, nel tuo ultimo libro del 2018?

Il libro è anch’esso edito dal Mulino, il titolo è Quelli che se ne vanno e ha per sottotitolo La nuova emigrazione italiana.

Negli ultimi decenni del secolo scorso si era diffusa la convinzione che l’Italia, tradizionale paese di emigrazione, fosse diventato paese di immigrazione. Questo trascurava il fatto che, sia pure in presenza di saldi migratori nulli, c’era comunque un movimento migratorio di italiani verso (e da) paesi stranieri e soprattutto c’erano significative comunità di cittadini italiani all’estero, in Europa e nei paesi extraeuropei. Sarebbe stato giusto dire che l’Italia, paese tradizionalmente di emigrazione, era diventato anche paese di immigrazione.

Ma a partire dalla fine del primo decennio del nuovo secolo ha luogo progressivamente qualcosa di significativamente nuovo di cui non si riesce a prendere atto e di cui non si capiscono bene   tuttora le dinamiche. Negli anni immediatamente successivi alla grande crisi di inizio secolo aumentano le partenze dall’Italia e i saldi migratori dei cittadini italiani. In realtà era evidente che era ripreso silenziosamente un nuovo ciclo dell’emigrazione italiana.

Per molto tempo pochi se ne accorgono e quelli che ne parlano la rappresentano in maniera assolutamente distorta, sostanzialmente come ‘fuga di cervelli’, come si usa dire. L’attenzione è concentrata sulla componente minoritaria che è quella degli altamente scolarizzati. In effetti questi rappresentano una minoranza rispetto a quelli che hanno titoli di studio medi o bassi e che sono destinati a occupazioni di livello scadente soprattutto nel terziario. Differenti spinte, differenti drivers muovono questi nuovi emigranti; la composizione del flusso in partenza dalle diverse regioni è anch’essa diversa.

In questa nuova emigrazione ci sono molti aspetti sorprendenti, quasi paradossali, a cominciare dalle regioni di provenienza degli emigranti. Infatti, quelle che presentavano all’inizio – e che in modo meno radicale presentano tuttora – il più alto numero di partenze erano proprio le regioni del Nord: un fenomeno che non si registrava dai primi decenni successivi all’Unità d’Italia. Questo mostra la complessità del nuovo flusso migratorio e giustifica il termine di “nuova emigrazione italiana”.

Si trattava naturalmente di un paradosso solo apparente dovuto alla complessità della composizione di questo nuovo flusso in uscita dal paese, estremamente complessa e ben diversa da quella che aveva caratterizzato il precedente ciclo migratorio, quello delle migrazioni intra europee degli anni ‘50-‘70, trainate dallo sviluppo industriale fordista e con composizione sostanzialmente proletaria e a destinazione occupazionale nell’industria, compresa l’edilizia e i lavori pubblici. Nella nuova emigrazione, infatti, la composizione di classe è molto più articolata con una significativa componente borghese altamente scolarizzata e una più vasta componente di estrazione popolare proveniente dalle regioni del Nord e del Mezzogiorno. Ma un aspetto di grande rilievo è rappresentato dalla presenza femminile autonoma tra i protagonisti di questo nuovo movimento migratorio: una presenza di giovani donne con comportamenti, aspettative e traiettorie non diverse dai loro coetanei maschi. Sottolineo il termine coetaneo giacché nel caso dei giovani così come delle giovani l’età media della partenza era ed è generalmente bassa. Anche se ormai essa ha cominciato ad aumentare. Inoltre, molti nuovi emigranti, pur rimanendo in una condizione esistenziale per così dire giovanile, invecchiano in quest’esperienza migratoria della quale non si prevede, e in sostanza non ci si aspetta neanche, la fine.

Sulla complessità di questo flusso non si è discusso a sufficienza e per un lungo periodo si è assunto che le spinte ad emigrare avessero sostanzialmente motivazioni extra economiche a partire dalla ricerca di nuovi stili di vita, nuove esperienze, sottovalutando la pura e semplice spinta tradizionale all’emigrazione che è quella di trovare un lavoro meno precario o comunque migliore di quello disponibile nelle aree di partenza, comprese quelle del Nord.

Ma l’aspetto più interessante di questa nuova emigrazione dal nostro paese, contemporanea a flussi in ingresso e presenza di immigrati, è il carattere di crocevia migratorio che l’Italia assume. All’epoca della pubblicazione del libro il numero di coloro che risultavano iscritti presso l’anagrafe degli italiani residenti all’estero era praticamente identico al numero dei cittadini stranieri censiti come residenti nel nostro paese. Nella lunga storia italiana questo carattere di crocevia non è una novità, ma in questo caso essa è legata a fenomeni nuovi di segmentazione e internazionalizzazione del mercato del lavoro. I lavoratori stranieri, che arrivano magari anche come rifugiati, soddisfano segmenti della domanda di lavoro italiana mentre i giovani italiani che partono per le destinazioni più varie, ma in massima parte per i paesi dell’Unione, hanno una ricchezza di capitale umano che soddisfa la domanda di lavoro dei paesi di destinazione. Tutto ciò però in un quadro del mercato del lavoro in cui la precarietà rappresenta la cifra che unifica i protagonisti appartenenti alle diverse classi sociali e aree territoriali di provenienza.

 E ora?

Attualmente sono impegnato in una ricerca di sociologia storica riguardante l’emigrazione italiana all’estero. La ricerca – condotta insieme a Mattia Vitiello già mio allievo a Napoli e ora primo ricercatore all’Irpps – parte dalla considerazione che le trasformazioni a livello economico e sociale che hanno interessato l’Italia nei diversi momenti della sua storia hanno sempre avuto riflessi significativi sull’emigrazione e per converso le vicende dell’emigrazione hanno avuto significativi effetti sulla realtà del paese. Attraverso un’analisi della situazione e delle caratteristiche dell’emigrazione nei tre principali cicli migratori – quello della grande emigrazione a cavallo tra XIX e XX secolo, quello delle migrazioni intra-europee del dopoguerra e quello attuale iniziato alla fine del primo decennio del nuovo secolo – portiamo documentazione a dimostrazione delle tesi di fondo. Finora abbiamo pubblicato alcuni contributi parziali.

Siamo in conclusione, abbiamo, credo, attraversato tutti i principali momenti e tutti i temi a cui ti sei dedicato, vuoi lasciarci un’indicazione che possiamo dare ai giovani studiosi?

 Il consiglio è sicuramente quello di leggere L’immaginazione sociologica, così si evitano i rischi di empirismo astratto che è il vizio secondo me dominante nell’area disciplinare alla quale io appartengo dal punto di vista burocratico. Ma soprattutto ai giovani raccomanderei di fare inchiesta, cioè di svolgere ricerca con impegno sociale e civile soprattutto non ideologico, fondato sul rapporto reciproco tra il ricercatore e le persone la cui realtà è oggetto della ricerca. In questo modo c’è una possibilità di arricchimento e di scoperta di cose che non si riescono a scoprire né attraverso l’analisi della documentazione statistica né attraverso le ricerche su vasta scala, le large scale surveys: per altro utilissime, ci mancherebbe altro.

In questo caso – nel caso delle ricerche convenzionali secondo canoni correnti – bisogna solo evitare errori. Il che comunque non è cosa da poco, ma ad esse manca quel quid in più dato dal rapporto diretto con l’interlocutore, così come fu per l’inchiesta operaia ai tempi di Panzieri o per l’inchiesta sulla Leggera di Danilo Montaldi e non solo.

L’inchiesta, però non è solo inchiesta operaia: gli interlocutori possono essere altri soggetti sociali altre persone: l’aspetto fondamentale dell’inchiesta è che essa è basata su un impegno civile e morale, una insoddisfazione per lo stato di cose esistenti, senza pretese demiurgiche.

 

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