#2/2022 – ENZO MINGIONE con Alberta Andreotti

In questa intervista Enzo Mingione ripercorre con Alberta Andreotti, la sua biografia personale e di ricerca, a partire dalle prime esperienze giovanili fino alle importanti partecipazioni alle reti di ricerca internazionale che gli permettono di maturare un approccio comparativo e di guardare ai fenomeni economici da una prospettiva territoriale. Attraverso l’analisi di temi classici come l’economia informale, la povertà urbana, la disoccupazione e la marginalità, emergono la centralità dell’approccio polanyiano, l’attenzione al lavoro e alle sue trasformazioni e tre consigli per le giovani generazioni: collaborare, perché la ricerca è sempre un’impresa collettiva, frequentare il contesto internazionale, dialogare con le altre discipline. 

Come ti sei avvicinato alla sociologia considerando che eri predestinato a fare l’avvocato, come tuo padre.

Eh sì, dovevo fare l’avvocato, infatti ero iscritto a giurisprudenza, mi sono iscritto a giurisprudenza nel 1966 e ho subito incontrato la sociologia, nel senso che nel fare i primi esami mi sono iscritto al corso di sociologia del diritto insegnato da Renato Treves e mi sono subito appassionato. Poi c’era un clima politico particolarmente fertile perché stava crescendo il movimento studentesco. Quando ero ancora al primo anno di università, dopo aver fatto l’esame di sociologia del diritto, ho partecipato a una ricerca sui notai con un lungo questionario, in cui ho imparato a costruire i questionari e a fare l’intervistatore. Pensa che mi hanno anche pagato! Poco dopo, ma sempre da studente, ho partecipato a questa grande ricerca sugli studenti universitari con il Centro di Ricerche Sociologiche della Lombardia coordinata da Pizzorno.  In quell’occasione ho fatto l’apprendista sociologo, stavo ancora facendo l’università. Questa era veramente una grande ricerca sociale, c’era un grosso gruppo di intervistatori e io ne facevo parte. Pizzorno aveva questa grande leadership e poi c’erano una serie di giovani collaboratori, tra cui Martinotti, Martinelli e altri.

La tappa successiva, sempre mentre ancora stavo studiando giurisprudenza, è stato il ‘68. Con Guido Martinotti e Guido Maggioni, che studiava Scienze politiche a Milano, abbiamo deciso di fare una ricerca sugli studenti che occupavano l’Università Statale. Avevamo fatto un questionario e ottenuto moltissime risposte, pubblicammo due articoli cofirmati da tutti e tre sulla rivista Problemi del socialismo in cui tracciavamo il profilo degli studenti mobilitati a Milano, le loro divisioni interne. Era una ricerca rigorosa e allo stesso tempo politicamente schierata.

Quasi prossimo alla laurea, con Alberto Giasanti, Mario Boffi e Stefano Cofini, che non ha fatto il sociologo, abbiamo fatto una ricerca sul quartiere Garibaldi-Isola che poi abbiamo pubblicato per la Feltrinelli con il titolo Città e conflitto sociale. Questa ricerca ha avuto un grandissimo successo e una visibilità enorme.  Anche in questo caso abbiamo mantenuto un profilo abbastanza politicizzato; era il periodo del grande impegno politico, in cui ricerca e mobilitazione spesso andavano assieme. C’erano gli abitanti di un quartiere, Garibaldi-Isola, dove c’era tanta proprietà del partito comunista, perché c’era la sede milanese del partito, e gli abitanti si ribellavano contro il caro affitti, gli sfratti, anche contro l’idea di ristrutturare il quartiere e farne un centro direzionale. Gli abitanti, che erano in buona parte operai, si sono opposti con successo alla nuova idea di quartiere. In quel lavoro avevamo cercato di studiare l’interazione degli operai con la città, in una fase ormai di stabilizzazione. Avevamo messo in evidenza che la classe operaia era composita al suo interno, non omogenea, con una componente che era appena arrivata a Milano ed era occupata soprattutto nell’edilizia, non più nella grande industria, perché quest’ultima ormai era assestata. La nuova classe operaia veniva assorbita soprattutto nell’edilizia e nel quartiere Garibaldi-Isola questo segmento era molto presente e viveva soprattutto nelle case vecchie, dove i proprietari non facevano nuovi investimenti in attesa della riqualificazione. Era lì che si innestava l’inserimento dei nuovi operai meridionali, non nella grande industria, che poi c’erano già tante ricerche sugli operai della grande industria a Torino, ma anche Genova e Milano.  

Subito dopo ho fatto una ricerca sugli impiegati, senza grandi finanziamenti. Era già stato pubblicato l’articolo sulle classi sociali in Italia di Sylos Labini e si era scatenato un dibattito. D’altro canto, c’era già la ricerca di Pizzorno sugli operai e non c’era modo per essere, diciamo così, competitivo. Poi mi sembrava interessante guardare cosa accadeva agli altri, considerando che gli operai erano già super studiati.

Dall’esperienza della ricerca Città e Conflitto sociale, abbiamo poi tratto un articolo, con un taglio più scientifico, pubblicato sui Quaderni di sociologia, il cui direttore era Pietro Rossi. È stato un rapporto molto interessante perché Pietro Rossi aveva accettato subito l’articolo, praticamente senza revisione, correggendo solo qualche virgola prima di pubblicarlo e molto gentilmente mi disse “non credo che Lei che è così di sinistra accetterà le mie modifiche”. Mi fece sorridere e gli dissi che anche se ero di sinistra, ero favorevole alle virgole. Questa ricerca è stata per me molto importante perché noi quattro autori, che stavamo per laurearci, avevamo coinvolto gli studenti di sociologia urbana, storia moderna e geografia per fare il lavoro sul campo. Inoltre, si era creato un gruppetto di nuovi laureandi in giurisprudenza e scienze politiche molto attivo. Era il 1970. Pensa che quella ricerca è stata poi la base per il saggio Social Conflict and the City (1980) che è stato pubblicato dieci anni dopo in diverse lingue, anche in giapponese. Tornando comunque al 1970, mi ero appena laureato. Guido Martinotti e Angelo Pagani dovevano organizzare il congresso dell’ISA a Varna in Bulgaria e mi chiesero di aiutarli.  Toccò a me organizzare un gruppo di una ventina di giovani laureandi o appena laureati che provenivano dalla Bocconi, da Pavia e soprattutto dalla Statale di Milano che diventarono il personale di segreteria al congresso. Fu un congresso rifondativo; Angelo Pagani venne eletto membro del comitato esecutivo, Guido Martinotti divenne il segretario generale e mi nominò vice-segretario dell’Associazione Internazionale di Sociologia.

Praticamente dopo poco che eri laureato eri vice-segretario dell’ISA. Impensabile oggi…   

Sai, eravamo pochi e abbiamo iniziato a costruire un percorso italiano, per me poi è stato fondamentale sapere bene l’inglese e il francese accanto alla sociologia, perché così ho cominciato un’esperienza di lavoro per l’associazione internazionale di sociologia che mi ha aperto tutte le relazioni internazionali. È così che ho conosciuto Ruth Glass che era da tempo la presidente del comitato storico dell’associazione internazionale di sociologia di Urban Sociology che poi abbiamo chiuso di comune accordo. Nel frattempo, abbiamo fondato l’Urban and Regional Committee (Rc21) e poi l’International Journal of Urban and Regional Research. Questa nuova avventura era il frutto dell’incontro tra la nuova sociologia urbana, sia di matrice marxista, con Manuel Castells, che di matrice weberiana, con Ray Pahl.  Attorno al comitato, c’era un gruppo di scienziati urbani europei, come Michael Harloe, Chris Pickvance, David Harvey, Manuel Castells, diversi urbanisti con formazione sociologica dell’Europa dell’Est, dei geografi. Questa esperienza è importante perché coniugava l’impostazione della nuova sociologia urbana nelle sue correnti, marxista e weberiana, con la political economy, con lo sviluppo economico e le trasformazioni del capitalismo, i conflitti sociali, la città operaia. Il riferimento era il saggio di Castells, La Question Urbaine, e poi il saggio con Godard, Monopolville: analyse des rapports entre l’entreprise, l’État et l’urbain.  L’attenzione era per il capitalismo e il ruolo della città nel capitalismo, da qui la nuova sociologia urbana anche nella sua variante più weberiana, rappresentata da Ray Pahl con cui ho lavorato per tantissimi anni sul settore informale. In quegli stessi anni, sono stato anche negli Stati Uniti a Santa Cruz e ho molto lavorato con William Friedland che si occupava di lavoratori agricoli, di cui mi stavo occupando a Messina, e ho cominciato ad avere dei contatti stretti con alcuni colleghi americani. Tra gli altri è stato importante l’incontro con Jim O’ Connor, con cui sono sempre rimasto in contatto. Con lui abbiamo avuto scambi importanti sia quando si è occupato di crisi fiscale dello Stato, sia quando ha cominciato ad occuparsi di ambiente e di ecologia. Questo mi ha portato a discutere della transizione ecologico-ambientale perché lui si è molto interessato di questo già alla fine degli anni 80, è stato uno dei precursori del tema della transizione ecologica. È sempre negli anni Ottanta, ma forse anche inizio Novanta, quando frequentavo molto gli Stati Uniti, che ho conosciuto Frances Fox Piven, Richard Sennett e Saskia Sassen, Susan e Norman Fainstein, John Mollenkof, ma ho anche ripreso a vedermi con Giovanni Arrighi, che avevo frequentato nei primi anni Settanta nei gruppi politici. Poi con loro, tutti, ho continuato un rapporto di grande amicizia che dura ancora oggi.

Ma continuiamo con il racconto dell’inizio anni Settanta e dell’esperienza internazionale.

Nel ‘74 divenni il segretario del comitato di ricerca RC21, quando il presidente era Ray Pahl, nel ‘78 divenni vicepresidente di RC21 con Manuel Castells presidente e nel 1982 diventai presidente del Comitato di ricerca RC21, quando presidente dell’ISA era Cardoso. Avevamo un rapporto stretto e siccome lui ormai era diventato senatore dell’opposizione e poi presidente, ho fatto molto per l’ISA. È stato un periodo di viaggi e organizzazione di convegni. Soprattutto ho viaggiato molto per l’associazione di sociologia perché ho organizzato il congresso di Toronto del ‘74, poi a Città del Messico, in Australia, dove rimasi quattro mesi, al congresso mondiale di Nuova Delhi dove andai in rappresentanza di Cardoso due volte, una delle quali feci il discorso inaugurale del congresso. Viaggiavo molto a quel tempo e non era la norma sicuramente.

Eri un global trotter ante litteram! Dentro questo contesto internazionale nasce anche la tua attenzione per la dimensione comparativa…

Era praticamente scontato perché ci confrontavamo e discutevamo dei cambiamenti nei nostri paesi. La prima ricerca comparata che ho diretto è stata finanziata dal Center for Environmental Studies di Londra che ora non esiste più, ma all’epoca era un centro di ricerca particolarmente importante che aveva molti finanziamenti. Tieni conto che non c’erano ancora i programmi di finanziamento della Commissione Europea, siamo nei primi anni ’70. Questo centro mi ha dato un fondo di ricerca importante per un ragazzino com’ero io. La ricerca aveva come oggetto i poli di sviluppo in Italia. Qui si vede molto bene l’intreccio con la sociologia economica. Chiesi suggerimenti soprattutto ad Alberto Martinelli che mi aiutò a gestire la ricerca e reclutai un gruppo di ricercatori che fecero il caso studio sul polo petrolchimico di Augusta Priolo a Siracusa e Porto Torres a Sassari. Il ricercatore che fece la ricerca su Sassari era Luigi Manconi suggeritomi da Bianca Beccalli. Da quella esperienza Manconi scrisse la monografia su Alghero Porto Torres, molto bella. Tutta la ricerca sui poli di sviluppo è andata praticamente perduta, non ci sono state grandi pubblicazioni. Allora non era di gran moda fare gli articoli su riviste di classe A e nessuno ha più utilizzato le interviste.  Un vero peccato.

In che anni siamo?

Credo che la ricerca fosse partita nel 1973, ed è andata avanti fino al 1976, nel frattempo ero già professore incaricato a Messina. Sono stato Professore incaricato prima di Teoria e Politica dello Sviluppo e poi di Sociologia economica.

Poi torniamo a Messina. Per ora continuiamo con la ricerca comparata e i tuoi rapporti internazionali con i quali abbiamo iniziato.  non è un caso che tu abbia iniziato subito a parlare dell’ISA, dei tuoi rapporti internazionali che sono stati da subito molto importanti, credo siano davvero il tuo tratto distintivo, soprattutto per quell’epoca. La capacità di essere dentro il dibattito internazionale e l’attenzione per la comparazione sono una tua costante.

Uno dei primi grandi lavori di stampo comparativo è stato sul settore informale in Europa, finanziato dalla Commissione Europea, un grandissimo lavoro che abbiamo fatto con Ray Pahl. Io avevo scritto due monografie: una sull’Italia e una sulla Grecia. L’unico paese in cui c’erano veramente dei dati sull’informale era l’Italia, perché allora c’era questo gruppo dell’Istat che aveva elaborato una serie storica con le stime dell’economia informale nel nostro paese e usando quella ho fatto vedere dove era concentrata, con quali caratteristiche. La stima dell’economia informale non era più data solo dalla differenza tra il censimento della popolazione e il censimento dell’industria che aveva usato Sylos Labini. Questo gruppo di lavoro dell’Istat aveva incrociato tutti i dati possibili e aveva trovato una modalità molto più vicina alla realtà per stimare l’economia sommersa. Ricordo che quel gruppo dell’Istat mi aveva aiutato molto, è stata un’esperienza fantastica. È stata un’esperienza molto bella anche in Grecia perché lì ho intervistato i sindacati delle organizzazioni degli immigrati e altri testimoni privilegiati.  In quel lavoro abbiamo messo in luce quanto era esteso e diversificato il lavoro informale nei paesi del Sud Europa, diversificato nel senso che si connetteva con le imprese familiari, ma anche con l’occupazione degli immigrati che cominciavano ad essere presenti. Mettevamo in luce la differenza tra l’immigrazione industriale nei paesi del centro Europa e la condizione degli immigrati che trovavano occupazione nell’informale, in condizioni pesanti. Venivano alla luce situazioni che purtroppo sono diventate quasi giornalistiche, tipo il fatto che i datori di lavoro greci sequestravano il passaporto agli immigrati per impedirgli di cambiare lavoro, di protestare… emergevano situazioni di lavoro che si pensavano perdute e invece erano in realtà compatibili con il capitalismo, con un capitalismo di un certo tipo. L’altra grande originalità della ricerca è stato il team internazionale e il dibattito costante. Vi erano ricercatori tedeschi, francesi, scandinavi ed emergeva che in tutti i paesi d’Europa, anche in quelli scandinavi, c’era una quota non indifferente di lavoro che rimaneva sommerso, informale, e che era parte di un sistema di lavoro dentro alle società capitalistiche. Non vi era solo il lavoro alle dipendenze, regolarizzato da contratti, ma tante forme di lavoro diverso. La modernizzazione non è solo la creazione di lavoro astratto, alle dipendenze, regolare ma è tutta una serie di forme che si intrecciano con il lavoro astratto, regolato.  Questo era l’interesse di questo rapporto di ricerca che è stato più volte ristampato. La cosa di cui sono abbastanza orgoglioso è che dietro i due rapporti sull’Italia e la Grecia ci sono approfondimenti qualitativi monografici anche fatti da altri che erano molto interessanti. Siamo tra gli anni ‘80 e ‘90. Questo ha significato che poi fossi chiamato come esperto sul lavoro informale nei paesi della Comunità e abbia poi avuto un altro incarico dalla Commissione nel ‘94 sempre sul tema dell’informale, in cui ho coinvolto Mauro Magatti. Dal punto di vista delle pubblicazioni, uno dei risultati di questi lavori è stato il volume curato con Nanneke Redclift, Beyond Employment (1985), anche qui c’è molto l’influenza di Ray Pahl.

In quegli anni di interesse per l’economia informale, anche per gli agricoltori, eri a Messina, come sei arrivato in questa città?

Ai tempi vi era molta più mobilità accademica, c’era un posto di Teoria politica dello sviluppo e mi hanno chiesto di candidarmi perché avevo già una serie di pubblicazioni, il libro “Città e conflitto sociale”, alcuni articoli frutto della ricerca sugli impiegati che avevo fatto a Milano, avevo i titoli per vincere questo bando e lo vinsi. Poi a Messina sono stato Professore Incaricato e Professore Associato di Sociologia economica. Sono arrivato a Messina nel 1973. Tieni conto, comunque, che durante il periodo messinese, come hai visto, ho viaggiato molto all’estero. I primi anni ho fatto il pendolare con Londra, dove lavoravo al centro di Urban Studies del University College of London che era diventato molto importante per gli studi sulla gentrification e aveva come missione la formazione degli esperti di città per i paesi del Sud del mondo. Sono sempre stato in contatto con Ruth (Glass) fino alla sua morte, abbiamo coltivato temi che erano comuni. A Messina poi mi sono interessato sempre di più alla questione dello sviluppo regionale e in particolare alla questione meridionale che era iniziata con la ricerca sui poli di sviluppo. Ho fatto molta ricerca su Messina perché Messina era una città particolare, distrutta dal terremoto del 1908 e si era creato un settore abitativo informale molto importante, edilizia di baracche provvisorie come venivano chiamate. Queste famose baracche provvisorie messinesi costruite durante la Prima guerra mondiale per alloggiare i terremotati, erano ancora operative come luogo di residenza negli anni Sessanta e Settanta. Qui all’epoca alloggiava una parte della classe operaia messinese molto marginalizzata. A Messina ho lavorato molto sul rapporto disoccupazione/occupazione e poi sulla povertà che ho sviluppato in particolare negli anni Novanta. Direi che in questa città si sono delineati gli interessi che ho mantenuto in modalità diverse e più articolate nel tempo. Prima di tutto la questione regionale e dello sviluppo, in particolare del Mezzogiorno, a questo proposito ho lavorato molto con Tonino Perna. Poi il settore informale, nelle sue diverse articolazioni; la disoccupazione/occupazione e i profili dei disoccupati con attenzione alle disuguaglianze territoriali e di genere; la povertà e il welfare con le politiche sociali declinate a livello locale e la questione dei diritti sociali. Tutto questo è dentro il tema delle trasformazioni del capitalismo, che poi è quello di cui mi sono sempre occupato. Qui c’è già molto l’idea del libro Fragmented Societies.

Infatti è durante il periodo messinese e i tuoi continui soggiorni all’estero, soprattutto in UK e USA, che tu imposti il tuo libro Fragmented Societies… un lavoro che ha moltissime citazioni, sei uno dei più citati tra gli italiani.

Forse l’eredità più importante di Messina e di tutti i contatti, soprattutto americani, è proprio Fragmented Societies. Ho iniziato a scrivere questo libro a Binghamton, quando ero visiting da Giovanni Arrighi e lui stava scrivendo “Il lungo XX secolo”; stavo nell’ufficio di Wallerstein che era in congedo. Se ripenso a tutta questa ondata di studi sull’informale e sulla disoccupazione prima e poi sulle nuove forme di povertà, le ripenso tutte dentro al quadro polanyiano, non ancora così fortemente centrato sul doppio movimento come faccio ora, ma sull’idea della tensione che si crea tra economia e società di Polanyi. Nella mia traiettoria personale, arrivo al pensiero polanyiano smontando il paradigma marxista, questo ti permette di interpretare la realtà uscendo dalla semplice descrizione. Sul concetto di informale, per esempio, ti permette di non essere troppo tecnico o troppo descrittivo, ma di far vedere che questo è il frutto di una tensione tra un processo regolativo e l’impatto del mercato. Il mercato rende necessario mettere in moto un processo regolativo e Polanyi elabora un quadro teorico coerente con quest’idea continua che il mercato crea una tensione non sostenibile, che fa sì che tu devi rispondere al mercato con un processo di regolazione che in qualche modo sostiene il mercato stesso, lo tiene in vita, perché un mercato sregolato non può vivere. Poi Polanyi è anche un po’ contraddittorio su questo aspetto. Non si capisce bene il mercato da solo come possa funzionare. Io sono andato verso una mia interpretazione, infatti contrariamente a quanto dicono i polanyiani stretti, ora sono assolutamente convinto che non esiste il disembeddedness e questa è un’evoluzione che ho avuto nel mio pensiero rispetto ai primi tempi, ai tempi di Fragmented Societies. All’inizio di Fragmented Societies, infatti, ci sono dei passaggi in cui dico che la società inglese ai tempi vittoriani era sradicata perché il mercato devastava talmente i legami sociali che la gente era proprio disperata perché non aveva le modalità di sopravvivere. Ci sono i racconti di Booth e di molti autori che ci fanno vedere le condizioni drammatiche del secondo ‘800 in Inghilterra, in cui i legami sociali nelle nuove città industriali sono veramente molto molto deboli e hai la povertà urbana. Il mercato ha un impatto devastante, ma la regolazione istituzionale c’è, quindi non è disembedded cosa che io non dicevo all’inizio. C’è un embeddedness costruita poi dalle relazioni familiari, dalle relazioni sociali, dalla solidarietà, dal fatto che hai dei movimenti sociali che ti proteggono. In fondo anche oggi è un po’ simile.  Poi anche la politica arriva, la regolazione istituzionale, gli attori politici capiscono che non possono creare povertà all’infinito, che bisogna ricostruire istituzioni regolative. Il paradigma polanyiano così rielaborato mi pare sia molto efficace per vedere la tensione tra società e mercato, una tensione continua. Per me oggi il doppio movimento è un parametro di lettura della realtà e del capitalismo contemporaneo. In Fragmented societies c’era già questa tensione ma non ancora la visione del doppio movimento così delineata. Anche in Sociologia della Vita Economica è ancora solo tratteggiata. Sociologia della Vita Economica è una traduzione, anzi, un riadattamento rivisto di Fragmented Societies che era troppo pesante per essere tradotto in italiano. La versione italiana è più corta e centrata sui sistemi di welfare e la loro costruzione. Questo lavoro l’ho fatto negli anni Novanta, quando ero a Padova.

Andiamo con ordine e riprendiamo il tuo percorso accademico da Messina…

Sono rimasto a Messina fino al ‘93 dove sono diventato ordinario in sociologia, ma ho insegnato nel frattempo anche sociologia dell’organizzazione a Milano Statale come professore associato. Non vinsi il concorso per la cattedra di sociologia economica a Messina, che vinse Ugo Ascoli. Tornai a Messina con una cattedra di sociologia urbana e poi diventai ordinario. Nell’anno in cui ero a Milano ho incontrato David Benassi e Simone Ghezzi, sono stati miei studenti di sociologia dell’organizzazione e hanno fatto la tesi di laurea in sociologia dell’organizzazione con me quell’anno in cui sono passato da Milano. Tu eri troppo giovane ancora. In quello stesso periodo ho incontrato Yuri (Kazepov). Guido Martinotti mi chiese di seguire la sua tesi di dottorato perché stava facendo una tesi comparata tra i sistemi sociali della Lombardia e del Baden-Württemberg e secondo Guido ero più esperto di lui. Da lì abbiamo cominciato a lavorare assieme.

Come mai insegnavi sociologia dell’organizzazione?

Marino Regini era andato via da Milano e si era aperta una finestra in sociologia dell’organizzazione. Nel frattempo, a Messina era già stata bandita una cattedra di sociologia urbana, un caso fortunato per quei tempi perché tra un concorso e l’altro passavano anche dieci anni. Invece sono passati sei mesi e avevo già vinto. Sono stato professore supplente e straordinario di sociologia urbana. Poi sono diventato ordinario di sociologia, e nello stesso periodo sono andato in congedo a Los Angeles a insegnare.

A Los Angeles dov’eri?

Ero al dipartimento di sociologia che allora era diretto da Ivan Szelenyi, un caro amico.  Era andato via dall’Ungheria nei primi anni ‘70, era stato in Inghilterra anche lui con Ray Pahl e avevamo lavorato assieme. Era anche lui nel board di RC21 nei primi anni Settanta e siamo diventati grandi amici.  A Los Angeles si incontravano la sociologia urbana, la geografia economica che negli Stati Uniti è sempre stata molto importante (Allen Scott e Michael Storper), poi quell’anno è passato anche Manuel Castells. È stato stimolante intellettualmente. È lì che ho iniziato a pensare e impostare il volume Urban Poverty.  Il tema della povertà si era spesso intrecciato a quello della disoccupazione nel Mezzogiorno, e negli anni Novanta ho approfondito questa tematica, anche con importanti collaborazioni istituzionali e attori locali. Al rientro da Los Angeles non sono più tornato a Messina perché mi avevano chiamato a Padova dove sono stato Direttore di dipartimento e sono rimasto fino all’arrivo in Bicocca nel 2000.

E a Padova come ti sei trovato dopo Messina?

Bene, era una realtà diversa rispetto a Messina. L’Ateneo era molto prestigioso e la sociologia aveva buone radici locali, anche se era rimasta un poco ai margini e non aveva uno spessore internazionale. In questo periodo è nata una forte collaborazione intellettuale con Gustavo Guizzardi, ma soprattutto con Franca Bimbi con la quale avevamo in comune l’interesse per l’occupazione femminile, la condizione delle donne, il lavoro di cura e la conciliazione tra lavoro e famiglia. A Padova sono continuate le ricerche sull’informale, in parte sui distretti. In questo periodo, sono gli anni Novanta, ho sviluppato particolarmente i legami con Sciences-Po e con Henri Mendras.  Henri Mendras aveva questi due giovani colleghi, Patrick Le Galès e Marco Oberti, e un rapporto molto forte con Arnaldo Bagnasco. Mi sono inserito in questo rapporto sull’ottica di come giocano le differenze regionali nello sviluppo economico della Francia e dell’Italia in termini comparativi. Mendras ci aveva chiesto di fare un lavoro sulle tendenze di trasformazione in Italia e con Bagnasco il dialogo era sempre aperto, a partire dalla discussione sul numero di Inchiesta sulle Tre Italie e la persistenza del dualismo Nord Sud riemerso in modo prepotente negli anni Novanta. Questo mi fa pensare che non ti ho ancora citato una persona importante, Vittorio Capecchi e la rivista Inchiesta.

Tu sei stato parte della rivista Inchiesta?

Mah, sì e no. Ho scritto diversi articoli per Inchiesta che è stata una rivista importante per la nostra generazione. Una rivista di approfondimento e dibattito intellettuale oltre che accademico stretto. Vittorio Capecchi è stato un punto di riferimento e ha contribuito alla ricerca sociologica su molti temi, coniugando il rigore della sua formazione metodologica con un profondo impegno politico e sociale.

Dunque, riprendiamo il filo dei tuoi interessi per arrivare al volume Urban Poverty, dicevi che negli anni Novanta continui alcuni temi, soprattutto povertà e disoccupazione, oltre al tema dello sviluppo regionale…

Si, negli anni Novanta sviluppo con più attenzione il tema della povertà e della disoccupazione. Sul versante povertà, la mia attività si è sviluppata in tutta una serie di ricerche che abbiamo fatto sulla povertà a Milano con Yuri (Kazepov), e poi con David (Benassi) e Simone (Ghezzi). Avevamo stipulato un accordo con l’Ufficio adulti in difficoltà, per cui abbiamo messo in piedi un archivio degli utenti e poi abbiamo fatto un accordo con la Caritas di Don Virginio Colmegna, inoltre avevamo un accordo con l’Ufficio materno infantile del comune di Milano. Abbiamo messo insieme i dati della Caritas e dell’Ufficio adulti in difficoltà ricostruendo le traiettorie e i profili della povertà a Milano, oltre che l’organizzazione dei servizi. È stato il periodo del volume La cittadinanza spezzata, dei numeri monografici di Marginalità e Società. Dentro questo quadro e con base la Fondazione Bignaschi, di cui sono presidente, abbiamo fondato l’Osservatorio sulle nuove povertà urbane. L’esperienza nasce forse, ma non ricordo più bene, con un progetto tipo gli attuali PRIN sulle “Nuove Povertà Urbane” in cui analizzavamo Milano, Messina, Roma e Napoli e uno degli obiettivi era proprio la costituzione di osservatori cittadini longitudinali (1994). Poi sono stato coordinatore di un altro sotto progetto strategico, “Distribuzione del Reddito, Diseguaglianze, Esclusione Sociale e Effetti delle Politiche Economiche e Sociali” sempre sul tema. La sintesi di tutti questi studi è il volume che ho curato “Urban Poverty and the Underclass: A Reader” pubblicato da Blackwell nel 1996, che raccoglie una serie di contributi internazionali sul tema, il celebre articolo di Wacquant, e quello di Peter Marcuse. In realtà il volume non ha tanto a che fare con l’underclass, piuttosto con disoccupazione, povertà, ma l’editore ha voluto insistere su underclass, perché negli Stati Uniti quello era il dibattito. Il lavoro sulla povertà e sulle politiche contro la povertà è poi continuato nei progetti europei. 

Un volume molto citato Urban Poverty, un classico ormai… prima di andare ai progetti europei, ti chiedo dell’altro tema che sviluppi negli stessi anni e che è un fil rouge nel tuo percorso, il tema della disoccupazione/occupazione e delle sue trasformazioni. 

Sul versante occupazione/disoccupazione durante gli anni Novanta, ho avuto un’intensa collaborazione con la Cgil nazionale e romana realizzando degli studi sulla disoccupazione, per esempio il volumetto curato con Giovanna Altieri del ’91, in cui descriviamo le figure dei disoccupati nel contesto economico e sociale, alcune cose in inglese e in spagnolo sul lavoro delle donne.  La collaborazione con CGIL si intreccia anche con la collaborazione, intensa e costante, con Enrico Pugliese, fino al volumetto il Lavoro, pubblicato nel 2002. La prima volta che è stato stampato è stato un grandissimo successo di vendite. Poi è stato pubblicato in una nuova edizione nel 2010 e attualmente stiamo lavorando alla terza versione aggiornata con Enrico (Pugliese) e Guido Cavalca. Direi che la questione del lavoro, delle sue forme e trasformazioni in connessione con i diritti attraversa tutta la mia carriera. All’inizio degli anni Duemila, ho curato per la Commissione Europa il rapporto Supiot sul Futuro del lavoro, in cui ho coinvolto Paolo Barbieri. C’erano degli economisti, dei giuristi, credo di essere stato l’unico sociologo. È un tema cruciale che ho ripreso anche nel recente volume per la Fondazione Feltrinelli intitolato proprio Lavoro: La grande trasformazione

Da quanto stai raccontando emergono bene i tuoi rapporti con le istituzioni locali e non…

È importante, è un pezzo di ricerca e consulenza importante che bisogna tenere vivo. Il rapporto con il sindacato, come dicevo, è sempre stato presente a partire dagli anni Novanta, quello nazionale e poi quello più locale. A Milano, con lo SPI-CGL, con la Camera del Lavoro ho rapporti intensi anche ora con l’organizzazione dei corsi di Alta Formazione per i delegati sindacali. Poi con il Comune e il settore dei servizi sociali ho avuto grandi rapporti che poi si sono un po’ persi. A livello locale oggi, ho un rapporto molto intenso con la Fondazione Feltrinelli che è diventata un importante centro di dibattito pubblico e fa cultura, in parte segue e in parte cerca di dettare un’agenda di temi. Oggi sono nel Consiglio scientifico della Fondazione Feltrinelli. Naturalmente poi la Commissione Europea è un’istituzione per la quale ho lavorato e con la quale ho svolto molti progetti. Come ti ho detto, il lavoro sull’informale è partito proprio come consulenza per la Commissione.

La Commissione Europea è sicuramente un attore chiave, anche nel grande impulso alla ricerca comparata, tornerei su questo punto, perché se non sbaglio è in questo periodo che tu sei molto coinvolto in questi progetti…

Si, metà/fine anni Novanta e prima decade Duemila sono il periodo dei grandi progetti europei. Qui si vede il grande impulso della Commissione Europea. Prima erano progetti prevalentemente a incarico individuale, anche se vi erano collaborazioni come nel caso del lavoro informale, con i progetti europei si strutturano gruppi di ricerca sia a livello nazionale sia a livello europeo con cui collaborare. Io sono stato coinvolto in sette progetti europei e alcuni network. Il primo grande progetto europeo è stato ESOPO (The Evaluation of Social Policies Against Social Exclusion at the Local Urban Level, 1996) coordinato da Chiara Saraceno che coinvolgeva altri 4 paesi europei. Parteciparono a quel progetto, a vario titolo, Yuri (Kazepov), David (Benassi), Simone (Ghezzi), Fabio (Quassoli), nell’unità torinese c’era Nicola Negri con cui avevamo un bel rapporto, Nicoletta Bosco. Mentre nelle altre unità europee c’erano Marco Oberti, Marisol Garcia che sono anche oggi dei riferimenti importanti, oltre che cari amici. Guardavamo all’implementazione del reddito minimo nei diversi paesi e nelle diverse località, evidenziando l’importanza del livello locale e l’intreccio con il livello nazionale. Da quella ricerca è nato poi l’interesse per il tema del welfare locale che ho sviluppato con te. Li abbiamo fatto un altro progetto europeo, qualche anno più tardi, TSFEPS (Changing Family Structure and Social Policy: Childcare Services in Europe and Social Cohesion, 2001), in cui guardavamo alle politiche e ai servizi per la prima infanzia. A quel punto ero già in Bicocca.

Dopo torniamo al tuo arrivo in Bicocca, certo hai fatto un sacco di progetti europei e collaborato anche con molti colleghi italiani e stranieri…

Ah si, solo Yuri ha partecipato e vinto più progetti di me!  La ricerca, soprattutto oggi, è un’avventura collettiva, necessariamente. Io poi mi trovo sempre meglio a lavorare con altri colleghi, a scambiarmi le idee e a correggermi, trovo che gli scambi di idee e le collaborazioni arricchiscano molto il lavoro. Poi, tutta una serie di pubblicazioni pesanti, come il libro Fragmented Societies, le ho scritte da solo però mi è sempre piaciuto far leggere quel che scrivevo ai colleghi per avere le loro opinioni; cercare di essere sempre in un contesto di cooperazione e di collegamento perché questo è molto importante per noi. Con i progetti europei questo è necessario e quindi ho coinvolto diversi colleghi. Nel progetto UGIS (Urban Development Programmes, Urban Governance, Social Inclusion & Sustainability) ho coinvolto Giampaolo Nuvolati; nel progetto ACRE ho coinvolto Elena dell’Agnese, Marianna d’Ovidio e Silvia Mugnano; nel progetto sulla sicurezza urbana MARGIN ho coinvolto Sonia Stefanizzi e Simone Ghezzi. Poi c’è stato un grande progetto dell’European Research Council intitolato GRECO in cui la PI era Susanna Narotzky dell’università di Barcellona e coinvolgeva due post-doc per ognuno dei quattro paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Grecia e Portogallo) della durata di 5 anni. Abbiamo fatto tantissimi incontri, convegni sul tema della resistenza dei ceti a basso reddito in alcune città del Sud Europa. L’obiettivo era capire come in ogni paese le persone affrontavano la crisi economica (del 2008). 

Immagino che l’idea fosse di lavorare sul modello sud europeo e capire se si può ancora parlare di una sua specificità.

Ma sai, si è vista una grande ricchezza di strategie e dal punto di vista dell’antropologia è sempre un po’ difficile parlare di modelli. Però sì, emerge una tipicità sud europea che è quella di coinvolgere in modo molto forte le strutture familiari e parentali, conviventi e non conviventi, in queste pratiche di resistenza. Poi vi sono pratiche comuni come quella di utilizzare il doppio lavoro, il lavoro nero, di adattarsi a determinate modalità di lavoro senza contratto, ma anche di mettere tutte le risorse familiari in comune. Sulle strategie abitative questo si vede bene, per esempio affittare dei pezzi di casa soprattutto se si tratta di case di campagna, oppure restare ad abitare nelle vecchie case al posto di spostarsi in città. Pratiche che permettono di sopravvivere al periodo di crisi, ma che abbassano la qualità della vita.

Poi sempre in ambito di progetti e network europei, c’è il grande network per giovani ricercatori che hai vinto, RTN-Urban Europe, in cui io ho fatto la project manager…

Di quello sono particolarmente orgoglioso, perché con quel network abbiamo fatto crescere un gruppo di giovani ricercatori che si sono poi affermati in giro per l’Europa; i partner di quel progetto erano LSE con Richard Burdett e Richard Sennett, Sciences-Po Paris con Patrick Le Galès e Marco Oberti, la Humboldt University con Hartmut Hausserman, Uva University of Amsterdam con Sako Musterd, l’Università di Urbino con Yuri Kazepov, l’Università di Barcellona con Marisol Garcia. Tutti questi studiosi hanno messo la loro expertise a disposizione di giovani ricercatori per discutere i loro progetti, ospitarli nelle loro sedi, inserirli nei loro network. Francisco Moreno Fuentes, Manuel Albers, Francois Bonnet, Bruno Cousin, Barbara Da Roit, Giulia Sinatti, e anche tu siete passati da quel network.

Tavola rotonda organizzata in occasione del pensionamento di Enzo Mingione presso Fondazione Feltrinelli.

Si, è stata un’esperienza davvero importante e di grande successo.

Un gran lavoro a disposizione dei giovani, che poi è la cosa più importante. Quel network è stato anche il riferimento per la creazione e il consolidamento del corso di dottorato in European Urban Studies in Bicocca che ho coordinato per molti anni.

A questo punto si impone parlare del tuo passaggio a bicocca e di questa nuova avventura.

Quando ero Direttore di Dipartimento a Padova, Antonio (de Lillo) mi ha proposto di entrare in questo progetto di fondazione di una facoltà di sociologia a Milano. Pensa che ero appena arrivato a Milano Bicocca e Giovanni Arrighi mi ha proposto un posto alla John Hopkins University. Sono stato tentato, ma il progetto di Bicocca era appena nato e non mi sembrava fair andarmene così, in aggiunta in quel periodo mia mamma era già malata e non volevo andare lontano. Sono rimasto in Bicocca. È stato un periodo di entusiasmo all’inizio, un’università nuova con possibilità e sicuramente buone risorse. Ho fatto il preside di facoltà per due mandati alternandomi con Antonio, e questo ha un po’ interrotto la mia capacità di partecipare a grandi progetti europei.

Raccontami del progetto Bicocca…

Ti direi che nasce come un grande progetto culturale di creare una nuova università, anche per scaricare la concentrazione sull’università di Milano e quindi rendere più efficace le pratiche educative per gli studenti, oltre che valorizzare alcuni settori disciplinari che non erano sviluppati nelle altre università milanesi come psicologia e sociologia. Per la sociologia è stato un grande evento, anche se la sociologia milanese è rimasta forte anche a scienze politiche. La nuova facoltà di Sociologia in Bicocca ha potuto contare su un gruppo molto forte e un gruppo di rientri importanti oltre ad alcuni nuovi allievi. Sociologia Bicocca è stata per un lungo periodo il più importante centro di studi sociologici in Italia. Il progetto iniziale era soprattutto nelle mani di Martinotti e de Lillo che sono i due grandi protagonisti di questa stagione. Poi la facoltà è cresciuta, le risorse non erano scarse, anzi sono state abbastanza abbondanti e quindi si poteva crescere. Durante il mio periodo di Presidenza, la facoltà era molto composita c’erano varie componenti e un rapporto importante con i colleghi e le colleghe di altre discipline, essendo noi un dipartimento aperto e interdisciplinare. Nel complesso comunque era un gruppo collaborativo, particolarmente aperto e con tante risorse anche di collaborazione internazionale, con due dottorati importanti nell’ambito nazionale e internazionale. La fatica di fare il preside era data soprattutto dalla competizione per le risorse dentro il Senato accademico fino alla riforma Gelmini. Poi questa complicazione è stata tolta, perché la riforma ha accentrato molto riducendo la concorrenza tra le diverse facoltà.

Dopo il tuo periodo di presidenza hai preso un anno sabbatico e sei andato a Stanford…

Ero stanco, ed ero in un posto bellissimo e ricco di stimoli. Avevo l’idea di lavorare ancora sul concetto di embeddedness, che poi in realtà ho fatto solo parzialmente, sviluppando di più l’idea della tensione del doppio movimento. Comunque, sono andato da Granovetter e ho partecipato a molti dei loro seminari. Avevo conosciuto Granovetter negli anni Novanta, a Creta, grazie all’amico comune Sokratis Koniordos, poi siamo rimasti in contatto e sono andato a Stanford.

Arriva così il momento del tuo pensionamento, in realtà solo formale…

Beh sì. Mi avete fatto una super sorpresa con Yuri, David, Simone. Avete riunito alcuni cari amici, con cui nel tempo mi sono confrontato e ho avuto uno scambio intellettuale che il volume Western Capitalism in Transition: Global Processes, Local Challenges restituisce bene. È nel capitolo di quel libro che pongo decisamente più attenzione alla questione del “Global South”. In realtà l’attenzione per il Sud del mondo c’era già anche agli inizi della mia carriera, se pensi che con Ruth Glass il programma di UCL era rivolto proprio agli operatori urbani del Sud del Mondo. Ecco, bisogna pensare a come cambia il panorama dello sviluppo oggi, che prima era centrato solo sulle esperienze del Nord. Con questo voglio dire che bisogna guardare a Nord e Sud e alla relazione reciproca.

Enzo Mingione nel 2018 al XIX ISA World Congress of Sociology (Toronto), durante la tavola rotonda The Future of Western Capitalism. Global Forces and Local Challenges.

Oggi stai lavorando su…

Oggi credo che l’analisi sulla trasformazione del lavoro sia molto ideologica e si fonda sull’idea della sparizione dei posti di lavoro. Quello che mi sembra di aver messo in linea già nell’Annuale che ho curato per Fondazione Feltrinelli sulle trasformazioni del lavoro è che in realtà c’è un grande cambiamento del lavoro, ma non scompare, diventa qualitativamente diverso, molto più eterogeneo, molto più instabile e c’è un problema di qualità. Mentre la qualità del lavoro taylorista era bassa, ma portava con sé una socialità operaia o impiegatizia e una capacità di organizzare la propria solidarietà e la propria vita, attualmente non ci sono i diritti, non ci sono garanzie e non c’è una capacità di potersi associare perché i lavori sono molto diversificati. È il grande problema della trasformazione del lavoro: non il fatto che non ci siano più lavori, ma il fatto che questi lavori perdano di socialità e di significato di qualità. Ci deve essere una mobilitazione dei lavoratori. Questo è un filone di ricerca su cui sarebbe importante lavorare. Dato che il lavoro è così spezzettato, tutte le ricerche possono essere importanti per mettere assieme i pezzi, perché mettendo assieme tutto si riesce meglio a capire cosa sta succedendo. Certo, bisogna fare ricerche sensate, con gli strumenti della sociologia. Il lavoro infatti è una delle cose più importanti. Il volume Il Manifesto del lavoro. Democratizzare. Demercificare. Disinquinare appena uscito in italiano è interessante perché insiste su questa pista, sull’idea della necessità di un processo che ridia socialità e che ridia senso e qualità alle esperienze lavorative che non stanno scomparendo ma stanno diventando molto frammentate, molto spezzettate.

La mia ossessione è che la sostenibilità è figlia del doppio movimento, dello scontro tra mercato e società, o meglio, dello scontro-incontro tra mercato e società e delle politiche che si inseriscono dentro questo scontro-incontro. Nel momento in cui il mercato non fornisce più una emancipazione dalla comunità tradizionale perché questa non c’è più, lì c’è un problema. Prima il mercato forniva emancipazione, era quello che succedeva nei paesi industrializzati, ma che non succedeva nei paesi del Sud del mondo. La sostenibilità dello sviluppo capitalistico era data da questa spinta all’emancipazione che oggi non c’è più. La questione è come si deve usare la mobilitazione politica per costruire delle nuove forme di socialità, delle nuove connessioni a partire dal lavoro, ma anche a partire da altri tipi di rapporti sociali. Oggi c’è questo distacco forte tra la realtà degli individui che sono sottoposti alla pressione del mercato e la riorganizzazione politica che ha le sue logiche che non mi pare siano le logiche di ricostruzione di un contesto di socialità, una socialità nuova che ti protegga.  La politica non funziona in questo senso, ci resta solo la mobilitazione.  Bisognerebbe valorizzare la mobilitazione dal basso per rigenerare la politica.  Il messaggio di Democratizing work è proprio la partecipazione, ci deve essere una spinta alla democraticità del lavoro per dare ai soggetti lavoratori uno strumento di organizzazione politica che è alternativa a quella del passato. La questione dell’organizzazione politica, delle istituzioni politiche e del come sono articolate ripropone il problema che aveva sollevato Michels sui partiti socialdemocratici. I partiti democratici pretendono di organizzare una partecipazione politica dei lavoratori pensandoli come omogenei tra loro e come omogenei rispetto ai capi del partito, ma le élite del partito non sono omogenee così come non lo sono i loro interessi con quelli dei lavoratori, quindi c’è una tensione forte. È certo vero per tutte le rappresentanze, se vuoi i politici sono molto più simili ad altri politici che alla loro base, soprattutto nel caso dei partiti di sinistra o dei Cinque Stelle oggi. Ai giorni nostri questa cosa è ancora più complicata dalla frammentazione del tessuto sociale e dalla sua instabilità.

9 marzo 2017, casa di Enzo Mingione. David Benassi, Enzo Mingione, Nicoletta Carmi, Simone Ghezzi, Yuri Kazepov e Alberta Andreotti festeggiano il pensionamento di Enzo rivelando il manoscritto Western Capitalism in Transition.

Siamo in chiusura e mi pare che tu abbia indicato una pista di ricerca interessante alla quale sei particolarmente affezionato. che altri consigli ti sentiresti di dare alle giovani e ai giovani ricercatori che iniziano oggi questo percorso.

Per me sono importanti tre cose che emergono anche dal mio percorso e che spero di aver lasciato come suggerimento. La prima è quella della collaborazione, come già dicevo la ricerca è senza dubbio un’impresa collettiva e lo è sempre di più. Certamente bisogna saper bilanciare e alternare lavori a più mani con lavori individuali, ma il confronto e il lavoro collettivo è fondamentale. Il secondo, ma non per importanza, solo perché le cose si dicono con un ordine, è il contesto internazionale. È importante essere inseriti nel contesto/dibattito internazionale e questo lo si fa in parte frequentando convegni internazionali, partecipando a progetti. Bisogna uscire dalla dimensione solo locale, perché questo aiuta a mettere in prospettiva comparata, ad avere nuove idee e a capire meglio cosa succede nel proprio contesto. Il terzo punto che forse non è emerso molto, ma che ho praticato molto, è quello di dialogare anche con altre discipline. Io l’ho fatto molto con gli antropologi, con i giuristi, con i geografi sapendo che noi portiamo la prospettiva sociologica con i nostri strumenti. Non sono tutti uguali, ma lavorare con discipline diverse è interessante e aiuta ancora una volta ad allargare la prospettiva. Direi che più collaborazioni, contaminazioni si creano più ci si arricchisce, sapendo la nostra specificità di sociologi. 

Bibliografia citata

Social Conflict and the City, Oxford: B.Blackwell, 1981

Beyond Employment con N.Redclift (editors), , B. Blackwell, Oxford 1985.

Fragmented Societies: A Sociology of Economic Life beyond the Market Paradigm, Oxford: Blackwell, 1991.

La cittadinanza spezzata, curato insieme a Yuri Kazepov, Messina: Armando Siciliano Editore, 1994.

Urban Poverty and the Underclass: A Reader (a cura di), Oxford: Blackwell, 1996.

Sociologia della Vita Economica, Roma: Carocci, 1998.

Il Lavoro, insieme a Enrico Pugliese, Roma: Carocci, 2002.

Il futuro del lavoro, (a cura di) insieme a Paolo Barbieri (ed. italiana del vol. di Alain Supiot), Roma: Carocci, 2003.

Lavoro: La grande trasformazione (a cura di), Milano, Fondazione Feltrinelli, 2021

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