#1/2014 – FRANCESCO PAOLO CERASE con Clementina Casula

Francesco Paolo Cerase ricostruisce con Clementina Casula le principali tappe del suo percorso formativo e professionale e, a partire dagli snodi principali di tale percorso, si sofferma sulle dinamiche che dal dopoguerra ad oggi portano la disciplina sociologica ad istituzionalizzarsi nell’accademia italiana. C’è spazio anche per alcune riflessioni su strumenti e finalità, successi e delusioni, che hanno contraddistinto il suo modo di vivere la professione di sociologo. Tra i maggiori rammarichi, lo scarso interesse riscosso nella sociologia economica italiana dal tema della regolazione derivante dall’agire delle amministrazioni pubbliche, da lui approfondito in diverse importanti ricerche…

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Partirei dalla tua formazione accademica: cosa ti spinge ad iscriverti alla Facoltà di Scienze statistiche della Sapienza e cosa ricordi del tuo primo incontro con la sociologia?

La scelta di iscrivermi “a Statistica” (come si diceva fra noi studenti) fu dettata principalmente da suggerimenti familiari e dalla prospettiva di trovare abbastanza facilmente un lavoro dopo la laurea. Si trattava di una Facoltà nuova e per molti versi promettente (anche se a dirlo oggi che la Facoltà – dopo essersi divisa in più tronconi – non c’è più, può sembrare paradossale…)[1]. Uno dei primi corsi che frequentai fu proprio quello di Sociologia, una materia della quale non avevo mai sentito parlare, ma che suscitò in me una forte curiosità… Può darsi che questa mia sia una razionalizzazione a posteriori ma, per un giovane che veniva dalla provincia del “profondo Sud”, ebbi l’impressione che le cose di cui si parlava in quel corso erano in grado di aiutarmi a capire meglio le differenze tra il mondo dal quale provenivo e quello che cominciavo a conoscere all’università. Per quanto pressoché senza un soldo in tasca, il solo fatto di essere borsista presso la Casa dello Studente a Roma mi consentiva di fare la vita da “studente a tempo pieno”: questo significava non solo andare a tutte le lezioni, ma anche in giro per la città fino a notte tarda, per la prima volta a teatro, con i biglietti per la claque e, più avanti, a scoprire il mondo dei dibattiti culturali e politici, ai quali provavo ad avvicinarmi con molta timidezza. Assistendo a dibattiti – come quelli degli “Amici del Mondo” all’Eliseo – mi rendevo conto di venire a contatto con un modo per me fino ad allora sconosciuto di ragionare e di guardare alla società in cui vivevo; ma soprattutto con persone e luoghi dove si discuteva di prospettive economiche, di scelte politiche, di futuro… Per il corso di Sociologia si studiava “Organismo e società”, una dispensa tratta dalle teorie di Corrado Gini sul neo-organicismo. Ricordo che mi capitava spesso di discuterne dei passaggi con alcuni studenti di Ingegneria, anche loro borsisti presso la Casa dello Studente, che mi ascoltavano con una qualche benevolenza…

Gini e Mussolini_1_Istituto Luce

Del contributo di Gini alla sociologia italiana si discute raramente[2]: che ruolo ha giocato nella tua formazione di “sociologo in erba” della Facoltà di Scienze statistiche, di cui Gini fu il principale promotore e fondatore?

Gini non è stato mio docente: se non ricordo male quando io mi iscrissi a Statistica lui era già andato in pensione e, salvo averlo intravisto qualche volta, di fatto posso dire di non averlo conosciuto. Tuttavia era chiaro anche a noi studenti che, ancora nei primi anni Sessanta, era lui la figura dominante nella Facoltà – anche se nessuno osava mai nominarlo…[3] Una gran parte dei docenti era composta, infatti, o da suoi ex-allievi o da persone che comunque avevano lavorato con lui. Gli ex-allievi a lui più vicini erano, credo, Nora Federici e Vittorio Castellano: la prima come demografa, il secondo come statistico ma soprattutto per la continuità data all’analisi giniana dei fenomeni sociali ed economici (oltre a insegnare il corso fondamentale di Statistica, Castellano era il docente di Sociologia). Direi che nel lavoro scientifico di Gini (come sarà poi di Castellano) e, aggiungerei, nel suo stesso modo di pensare, non ci sono confini tra campi disciplinari che non vadano travalicati, non ci sono specializzazioni in cui restare chiusi. Al contrario, ciò che conta sono i punti di passaggio, l’individuazione di ciò che ti può far procedere da un campo all’altro, in modo da farti capire di più sia del primo che del secondo. Il problema è come lo fai… In questo senso sono da intendere anche le affermazioni di Castellano sulla Statistica come “metodologia delle scienze di osservazione”, attenta non solo alla descrizione ma anche alla concettualizzazione dei fenomeni, e della Sociologia come “scienza di seconda approssimazione”, che studia le relazioni, le connessioni, tra i fenomeni – demografici, economici, antropologici – oggetto delle scienze specialistiche di “prima approssimazione”[4]. All’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, Gini si ritrova ad essere il Presidente dell’Institut International de Sociologie e direttore della Revue Internationale de Sociologie[5] oltre che, tra le altre cose, Presidente del Comitato Italiano per lo Studio dei Problemi della Popolazione (CISP), tutti incarichi che alla morte di Gini passeranno a Castellano. Naturalmente, i riconoscimenti alla figura di Gini come scienziato a livello internazionale e nazionale andavano ben oltre il campo sociologico (come ebbi presto modo di verificare nell’organizzazione del convegno ad un anno dalla sua morte, avvenuta nel 1965). Viceversa sembrò a molti, mi riferisco in particolare a persone all’interno della Facoltà di Scienze Statistiche, che Castellano prestasse eccessiva attenzione, o comunque ponesse eccessiva enfasi sull’eredità che Gini aveva lasciato come “sociologo”. Diventerà anzi quello uno dei motivi di conflitto all’interno della Facoltà dal quale alla fine Castellano ne uscirà sostanzialmente perdente. Ma forse sto andando troppo avanti…

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