#1/2014 – FRANCESCO PAOLO CERASE con Clementina Casula

Torniamo alla scelta di sociologia come disciplina in cui specializzarti, laureandoti con Castellano con una tesi sui rapporti tra individuo e autorità pubblica nel Mezzogiorno e seguendo i corsi di Master e Dottorato alla Columbia University…

Penso che buona parte della motivazione stia nella combinazione tra i nuovi interessi che andavo scoprendo e le domande che ancora appena abbozzate mi portavo dentro sul perché del  “Mezzogiorno d’Italia”, alle quali però cominciavo a trovare elementi di risposta dalle prime letture di quelli che presto avrei imparato a conoscere come “i meridionalisti” (penso, per dirne solo alcuni, a Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Tommaso Fiore); ma già nel lavoro di tesi c’è l’impronta di ciò che stavo imparando “a Statistica”, ovvero come fare ricerca empirica (il come confrontarsi con l’evidenza dei fatti, con quale metodo, con quali strumenti). Maturai così il convincimento che dovevo provare a proseguire gli studi sociologici, ma in Italia non c’era luogo e modo di farlo[6]. Venni quindi a sapere che le università statunitensi non solo erano il posto giusto, ma talvolta mettevano a concorso delle borse di studio accessibili anche a studenti stranieri. … Fu così che decisi di partecipare al bando per una borsa presso il Dipartimento di Sociologia della Columbia. Vista a distanza di tanti anni, la borsa ottenuta alla Columbia fu l’esito di una certa sicurezza sulle proprie capacità che solo da giovani, credo, si riesce ad avere, unita alla buona sorte. Infatti, per concorrere alla borsa bisognava preparare un progetto: quanto fin lì imparato sulla statistica in relazione alle scienze sociali, ma soprattutto la crescente familiarità con quella che con Castellano avevo imparato a conoscere come la “Scuola italiana di Statistica” (non solo Gini, ma anche altri autori come Alfredo Niceforo), mi suggerirono di partire da lì: ne venne fuori un progetto in cui sostanzialmente proponevo di studiare la misurazione dei fenomeni sociali. Qui si aggiunse la buona sorte: della commissione del Dipartimento di Sociologia che doveva decidere faceva parte Paul F. Lazarsfeld, il quale intravide nel mio progetto un’idea interessante e, ovviamente, in linea con i suoi interessi[7]. Su Niceforo, e su quella che si potrebbe effettivamente chiamare la tradizione italiana di “ricerca sociale”, che è andata poi perduta (e nella quale, peraltro, ci metterei dentro anche le grandi inchieste parlamentari del periodo post-unitario), scrissi qualche anno dopo degli articoli[8]; ma il mio interesse per la “misurazione” dei fenomeni sociali non è andato oltre.

Nel 2004, davanti alla biblioteca della Columbia University presso la quale negli anni Sessanta ha ottenuto MA e PhD

Quali sono le personalità della Columbia che ritieni abbiano maggiormente influenzato il tuo percorso di sociologo?

L’esperienza alla Columbia ha rappresentato per me la vera svolta, da tanti punti di vista. Fu per me la scoperta di che cosa può essere effettivamente una “Università degli Studi”, in che modo docenti e studenti possono costituire una comunità scientifica. In ciò ovviamente era determinante la qualità dei docenti. Quando io andai alla Columbia nel 1963, il Dipartimento di Sociologia era forse al culmine del suo prestigio e della sua reputazione. Oltre a Lazarsfeld, l’altro dominus del Dipartimento era Robert K. Merton. Delle sue lezioni sull’analisi della struttura sociale conservo un ricordo vividissimo. Quel modo tutto suo di introdurre l’argomento – ogni volta ricollegandolo a quello della lezione precedente – per poi svilupparlo passo passo, riempendo l’intera lavagna con una scrittura chiara e fitta, e costellandolo di punti di domanda intriganti con i quali coinvolgeva noi studenti – gli unici momenti, peraltro, in cui si sentiva qualcuno fiatare. Quei suoi sottili, eleganti richiami a Talcott Parsons, l’altro grande sociologo allora anche al culmine del suo successo e influenza scientifica, tesi a far emergere i punti di differenza tra le sue teorie a medio raggio e la teoria sistemica di Parsons (detto per inciso, per me la migliore introduzione a Marx, Durkheim e Weber resta quella che ebbi nel corso di storia del pensiero sociologico tenuto da Merton…). La rivalità, o gara, tra il Dipartimento di Sociologia della Columbia e quello di Harvard stava anche nel riuscire a prevalere quanto ai docenti che vi insegnavano. Se ben ricordo, ai miei tempi alla Columbia insegnavano Herbert H. Hyman, William J. Goode, Amitai Etzioni, Juan J. Linz, Daniel Bell, Sigmund Diamond, Allen H. Barton – e certamente me ne sto dimenticando qualcun altro dello stesso calibro. Fra gli assistant professors più popolari tra noi studenti c’erano Terence K. Hopkins e Immanuel Wallerstein (non ancora diventati – cosa che avvenne dopo che ebbero lasciato la Columbia – i teorizzatori di quella World System Analysis affermatasi negli anni Settanta): ho imparato molto da entrambi, forse più dal primo, che scelsi come tutor per un master essay intitolato “A Sociological Analysis of the Southern Italian Peasantry”.

Si trattava di un tema assegnato sulla scia del dibattito attorno alla controversa tesi di Edward Banfield sull’ amoral familism?

No, la scelta fu mia… Durante i primi due anni di permanenza in America credo di essere tornato in Italia una volta sola, rendendomi conto che la distanza che si era creata tra il mio mondo di provenienza e il nuovo mondo in cui credevo di essere entrato a far parte era diventata davvero enorme: per aspirazioni, modi di pensare, modi di relazionarsi agli altri, di porre le questioni: tutto era diverso. Eppure, nei miei rapporti interpersonali nell’ambiente della Columbia, quando mi chiedevano da dove venivo rispondevo sempre “dal profondo Sud dell’Italia”. Lo dicevo quasi a voler rivendicare non solo un’appartenenza, ma anche una volontà di riscatto. E dunque, quando Hopkins mi chiese di che cosa volessi occuparmi nel master essay, gli dissi che volevo occuparmi dei contadini meridionali, che volevo provare a capire, a spiegare le ragioni della loro arretratezza. Hopkins non ebbe nulla da obiettare, ma di lì a poco scoprii che la scelta dell’argomento, come la passione o la determinazione con la quale uno può decidere di affrontarlo, è solo un primo passo: “Qual è la tua tesi? Che cos’è che vuoi sostenere? Come credi di poterlo dimostrare?“. Furono queste le domande che Hopkins continuò inflessibilmente a pormi e fino a quando le mie risposte, con quello che scrivevo, non gli sembravano soddisfacenti, non mi consentiva di andare avanti (a lui devo anche di avermi introdotto all’opera di Karl Polanyi).

 

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