#1/2014 – FRANCESCO PAOLO CERASE con Clementina Casula

Guardando il tuo curriculum si nota già dagli esordi una varietà di collaborazioni e incarichi a livello nazionale ed internazionale… Quale ritieni siano state le risorse più rilevanti per ottenere tali responsabilità?

In primo luogo, il fatto che gli incarichi di Gini “sociologo” passarono a Castellano ebbe per me conseguenze non da poco. Di lì a qualche anno – come suo assistente di Sociologia dal 1965 – mi ritrovai direttamente coinvolto nelle vicende dell’Institut International de Sociologie e nominato redattore della Revue Internationale de Sociologie, ma sia l’uno che l’altra non ebbero allora vita facile. Non ho mai saputo i dettagli, ma l’Institut nel secondo dopo-guerra non ebbe il riconoscimento dell’Unesco, che andò invece alla neo-nata Associazione Internazionale di Sociologia. E lì iniziò il suo declino, soprattutto perché per molti anni risultò difficile trovare personalità di spicco disposte a farne parte. Ciò malgrado organizzammo negli anni Settanta dei congressi internazionali a loro modo memorabili, come quello a Caracas, e ancora di più quello ad Algeri con il patrocinio del Governo Boumedienne e con la partecipazione di numerosissime delegazioni ufficiali di “Paesi Terzi”. Credo che anni più tardi, dopo la morte di Castellano e quando la mia collaborazione sia con l’Institut che con la Revue era cessata da molto tempo, proprio l’aggancio a un Paese Terzo come la Cina (detto così oggi fa certamente sorridere) sia stata la chiave di volta per una rinascita dell’Institut, ma presumo senza alcun effettivo legame alla sua storia passata. Le difficoltà dell’Institut si riflettevano sulla Revue, che ne era il suo organo ufficiale: anche se in qualche modo Castellano riusciva sempre a trovare le risorse per la pubblicazione, la rivista non aveva un editore, i numeri uscivano in maniera piuttosto disordinata e con contributi di qualità alterna.

2.Con Alessandro Pizzorno e Amalia Signorelli in occasione dell’inaugurazione della Facoltà di Sociologia dell’Università di Napoli nel 1995

Per quanto riguarda invece i contatti nazionali, viste le difficoltose relazioni di Castellano con la comunità sociologica italiana, ho dovuto crearmi da solo i miei canali. Da questo punto di vista una qualche importanza ebbe il fatto che, prima di tornare in Italia, nel ’68, avevo partecipato all’ultima fase del movimento studentesco della Columbia. Credo che ciò ebbe una certa influenza sul modo in cui impostai le mie ricerche tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, come anche sul tipo di contatti che in quegli anni cercai di stabilire con gruppi di sociologi o anche solo con singole persone, e a trascurarne altri. Ti faccio due esempi: uno è quello della ricerca su sotto-sviluppo ed emigrazione nell’Italia meridionale; l’altro, qualche anno più tardi, è la ricerca sulla collocazione di classe della nuova piccola borghesia. Ti possono sembrare temi distanti, ma in entrambi i casi cercavo di capire come la spiegazione della riproduzione delle condizioni del sotto-sviluppo meridionale, nel primo caso, e del modo di essere di quel segmento di classe media, nel secondo, andasse cercata nella logica dello sviluppo capitalistico e nelle vicende di quello italiano in particolare. Fu quell’impostazione che mi portò, ad esempio, ad avere contatti e poi a frequentare attivamente verso la fine degli anni Settanta i seminari del Centro Studi di Politica Economica di Roma (CeSPE). Questa mia ricerca di colleganza con gruppi e persone con le quali ritenevo di condividere un modo di porre e affrontare i problemi mi fece guadagnare, da parte di altri gruppi e persone, una precisa etichettatura “politica”. Sia chiaro, non avevano torto. Il punto è che in più di un’occasione quell’etichettatura ha pesato molto negativamente, e ingiustamente – credo – sulle possibilità di carriera accademica: per quanto era stato agevole l’ingresso nell’università, la successiva carriera è stata invece piuttosto faticosa…

Che ruolo gioca quella etichettatura “politica” nell’ambito della neonata Associazione italiana di Sociologia (AIS)[15]?

Le condivisioni di vedute che a partire da quell’impostazione andai maturando mi fecero sembrare ovvio cercare l’appartenenza, nel contesto della costituzione dell’AIS, alla componente che sarebbe stata poi identificata come “MiTo”[16]. Inizialmente ne fui tra i colleghi della fascia degli associati uno dei più strenui sostenitori, tanto da essere eletto nel primo direttivo AIS tra i rappresentanti di quella componente; però è almeno dalla fine degli anni Ottanta che sono convinto che la costituzione delle “componenti” è stata la peggiore iattura della sociologia italiana – per quanto, quale che sia la ragione, non abbia inciso particolarmente sulle vicende della comunità dei sociologi economici. Gradualmente, infatti, l’appartenenza di “componente” ha finito per condizionare tutto: non solo carriera ed accesso ai fondi di ricerca, ma anche accesso a cariche istituzionali e lo statuto stesso di molte discipline sociologiche. E da questo punto di vista, se di “capitale sociale” si tratta – come a volte si sente dire – ci vedo principalmente quello “negativo”.

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