#1/2014 – FRANCESCO PAOLO CERASE con Clementina Casula

In questo quadro rientra anche la questione della diversa forza di sedi centrali e sedi periferiche (specie se del Mezzogiorno), che hai sollevato in svariate occasioni…

Ce lo siamo detti tante volte: CHIARELLO_CERASE_BOTTAZZI_AIS-ELO2002@CAGLIARI_tagliataper quanto l’accesso e la comunicazione sulla rete possa aiutare, da sole non bastano. Perché una comunità scientifica possa riprodursi, irrobustirsi, svilupparsi non ha solo bisogno di risorse, ma ha anche bisogno di scambi continui, di facilità di movimento. E una cosa è stare a Milano o a Bologna, o anche in una piccola sede del Nord, e da lì guardarsi intorno per creare occasioni di incontro, di scambio, per organizzare iniziative di ogni tipo; ben altra cosa è stare a Cagliari o a Bari o anche a Napoli. A ciò comunque aggiungi che le risorse di diverso tipo cui puoi avere accesso stando in una sede meridionale sono di gran lunga inferiori… E raramente riesci ad aggirare il fatto che i gruppi forti diventano sempre più forti, e quelli deboli sempre più marginali…

A questo proposito, mi dici cosa hai conservato dell’esperienza napoletana?

Quando andai a Napoli la prima volta (nel 1987-88, all’indomani del concorso per straordinario), una delle prime cose che mi venne in mente di fare fu proprio quella di organizzare un seminario “itinerante” tra le diverse sedi meridionali per dibattere le questioni che più ci stavano a cuore e rinsaldare una nostra comunità di sociologi economici “del Sud”. Nell’archivio del tuo Dipartimento troverai sicuramente gli atti dell’incontro che facemmo a Cagliari, organizzato da Gianfranco Bottazzi. Ma, oltre anche all’incontro di studio su “Dopo il familismo, cosa”, organizzato a Napoli, finì lì…[17]

Con Marco Zurru, Gianfranco Bottazzi, Lilli Pruna, Paola De Vivo a Bologna per convegno annuale AIS-ELO 2006

Venendo più nel merito all’esperienza napoletana, non è stata un’esperienza felice. Indubbiamente ho le mie responsabilità e tra queste anche quella di non aver voluto neanche prendere in considerazione la possibilità di risiedere a Napoli: per quanto grande sia stato l’impegno e la dedizione dedicate al compito, di fatto si è trattato comunque di una cosa fatta a metà e credo che ciò abbia pesato molto. La prima volta mi chiesero di fare il Direttore del Dipartimento di Sociologia, ma per quanto credevo di essere forte delle mie conoscenze “meridionalistiche” e mi sentivo sicuro di poter gestire la situazione, scoprii presto quanto fossi completamente estraneo all’ambiente napoletano. Ben presto mi ritrovai a sbattere forte il muso contro le solidarietà che scaturivano dalle appartenenze di gruppo a livello locale. Sono tornato a Napoli nel 1994 – dopo un breve periodo presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione a Roma – come Preside della neo-nata Facoltà di Sociologia e ci sono rimasto fino al pensionamento. Ho fatto il Preside per due mandati, un periodo abbastanza lungo per rendermi conto, pur nel mio piccolo, di quanto pesanti, opprimenti siano i vincoli e i condizionamenti che gravano in quel contesto sulla gestione della funzione pubblica. Direi che, salvo rare eccezioni, occupare un incarico pubblico è visto anzitutto come occasione di appropriazione neo-patrimonialistica, accaparramento di ogni possibile vantaggio che ne può derivare. E dove il merito delle persone conta poco o comunque conta maledettamente poco a confronto con quanto contano i legami di appartenenza di tutti i tipi. Naturalmente, resta il fatto che Napoli è una città di un fascino estremo: nei suoi eccessi di sorprendenti bellezze e di disperate bruttezze. Ma negli ultimi dieci anni di università, pur frequentandola meno degli anni precedenti, ho avuto netta l’impressione di un suo crescente immiserimento, di un’assuefazione o rassegnazione sempre più cupa, di un fatalismo sempre più cinico.

E tuttavia il “periodo napoletano” sembra fecondo per la tua ricerca: gli approfondimenti sulla pubblica amministrazione, le nuove ricerche sullo sviluppo del Mezzogiorno e sul Giappone, dove torni a più riprese come Visiting Professor… come nasce il tuo interesse per questo Paese?

Piuttosto casualmente, direi. Quando ci andai la prima volta, all’inizio degli anni Novanta, dovetti superare una sorta di pregiudizio ideologico legato al ricordo che avevo del militarismo nipponico. Una volta lì, però, mi si presentò davanti un Paese che non solo non era da meno di qualsiasi altro Paese occidentale, ma conservava anche delle caratteristiche culturali tutte sue di grande fascino che lo rendevano unico. Ne restai profondamente attratto (tant’è che qualche anno dopo mi sono risposato con una signora giapponese). In quel periodo ero totalmente assorbito dalle ricerche sulla pubblica amministrazione e mi venne naturale chiedermi quale ruolo avesse avuto, ed aveva, l’amministrazione pubblica giapponese nel porre le condizioni del successo del proprio Paese – per quanto giusto in quegli stessi anni quel successo si stesse esaurendo. Fu così che la “burocrazia nazionale giapponese” divenne uno dei temi di mio maggiore interesse.

4.Con Akihiro Ishikawa, Yoshimoto Kawasaki e altri due colleghi nel 1998 durante un’indagine sul campo per una ricerca sull’avvio di attività di piccola impresa e nuove strutture amministrative nella Slovacchia post-regime

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