#4/2014 – GUIDO BAGLIONI con Serafino Negrelli

Anche per Guido Baglioni, qui intervistato da Serafino Negrelli, l’incontro con la sociologia segue un percorso di serendipità. Nasce e cresce a Gardone Val Trompia), sede della Beretta, la celebre fabbrica d’armi, presso la quale il padre lavora come incisore. In cerca di una via di fuga da un destino professionale che sembrerebbe segnato, segue la passione per le arti figurative virando verso studi umanistici e insegnando storia dell’arte, fino a quando l’impegno all’interno del sindacato non diventerà prioritario, cedendo infine il passo alla vocazione accademica. Tuttavia per il sociologo del lavoro e dell’industria l’appartenenza alla comunità valtrumpina, orgogliosamente rivendicata, rappresenterà  una fonte costante di riflessione sui cambiamenti che hanno attraversato la vita familiare e professionale degli italiani dal secondo dopoguerra ad oggi, ponendo nuove sfide a chi, come il sindacato, è chiamato a tutelare i lavoratori.

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chi è baglioni

Prof. Baglioni, mi racconti qual è stato il suo percorso, prima di affermarsi come sociologo del lavoro e dell’industria.

Provengo da un ambiente sociale industriale qual è la Val Trompia: sono nato a Gardone Val Trompia [1], dove ho vissuto fino a quando non mi sono iscritto all’Università a Milano, nel 1948.  BAGLIONI_02I miei primi vent’anni li ho praticamente trascorsi sempre a Gardone, fatte salve le trasferte a Brescia per frequentare la scuola media e quindi l’Istituto Tecnico Industriale. L’ambiente della Val Trompia era in netta prevalenza operaio: i lavoratori dipendenti ne costituivano il baricentro e non erano un gruppo socialmente inferiore, ma la stratificazione del mondo operaio era piuttosto articolata…

Qual era la provenienza socio-professionale della sua famiglia?

Mia madre aveva un origine più borghese: suo padre era direttore della banca locale. Mio padre invece lavorava alla Beretta[2], un’azienda metalmeccanica (produttrice di armi da caccia e, ahimè, da guerra in tempo di guerra), simbolo di un industrialismo che penetra nelle ossa di chi vive in quell’ambiente; BERETTA_1880__Operai_fine_800ma vi figurava come incisore, con compiti a carattere artigianale e artistico, soprattutto per i fucili da caccia di lusso (nel genere era un maestro, ancora oggi riconosciuto come tale…).

Lei come è cresciuto in questo ambiente, prevalentemente operaio?

Vivevo intensamente, conoscevo e parlavo con tutti, ero bravo a scuola, sebbene non dimostrassi particolari doti… quindi il mio normale destino formativo sarebbe stato quello del perito industriale, finalizzato ad entrare a lavorare in una delle fabbriche di Gardone (non c’era solo la Beretta, ma anche una sezione molto forte della Redaelli di Milano, l’Arsenale militare – un’ampia realtà in tempo di guerra -)[3]. Pertanto ho frequentato la scuola media a Brescia e poi l’Istituto Tecnico Industriale fino al penultimo anno, quando è avvenuta la prima grande interruzione del mio percorso di vita… card1_bresciavintage_it

Quanto ritiene che tale ambiente di provenienza abbia influenzato la sua futura esperienza di sociologo?

Può avere influito nel senso che alla mia identificazione con l’ambiente si aggiungeva una certa curiosità sociologica: probabilmente intuivo che non avrei fatto il percorso normale “Brescia-perito industriale e ritorno”; ma crescendo non ho mai avuto un senso di sufficienza nei confronti dell’ambiente sociale di origine, né sentito il bisogno di evadere da questo…

I problemi dei lavoratori e del lavoro mi attiravano e mi attirano fondamentalmente perché nella cultura in cui sono cresciuto il lavoro poteva essere fatica, sforzo, delusioni, ecc., ma era comunque un fattore centrale di identità, di riuscita, di autostima. Dire “sono operaio specializzato” non significava solo aggiungere un aggettivo al sostantivo “operaio”, ma soprattutto dare preminenza al senso della socialità, della dimensione collettiva di questo gruppo, che non era tanto una classe sociale quanto– allora, ma in buona misura anche adesso – un insieme di persone che fanno attività comune, che hanno una certa impronta di stile di vita.

Ci sono stati  due fatti che hanno accentuato la mia curiosità sociologica e la propensione allo studio del lavoro. 1960_beretta_660x400Innanzitutto la mia esperienza operaia alla Beretta, dal giugno del 1944 al maggio 1945, che si è trasformata in una crescita personale; prima di tutto perché mi sono trovato tra persone adulte, in un ambiente promiscuo, con una certa libertà esistenziale. È stata un’esperienza durata solo un anno, ma mi è rimasta dentro, perché ho vissuto e respirato la vita della fabbrica…

 Mi dica qualcosa di più di questo suo anno di lavoro operaio…

Per far ciò occorre legare la mia esperienza della fabbrica con l’altro evento che intendevo richiamare: quello della Resistenza. In fabbrica ho infatti accentuato la mia attività a favore della Resistenza, che consisteva nella distribuzione di materiale, volantini, giornali – per esempio “Il Ribelle”[4], un giornale che si stampava a Brescia negli ambienti cattolici.  ilribelle

Organizzavamo, durante gli allarmi frequentissimi, la consegna ai partigiani di pezzi del mitragliatore, un’arma estremamente semplice dal punto di vista tecnologico e facile da montare anche fuori dalla fabbrica. Questa attività svolta con un senso del lavoro così forte che la fabbrica – nonostante lavorassimo per i tedeschi (erano loro che la controllavano, avendo messo da parte i proprietari della famiglia Beretta) – funzionava regolarmente, anzi con una elevata produttività, anche senza coercizione. Infatti i tedeschi non erano lì con il mitra, facevano i loro controlli e quando si raggiungevano i livelli di produzione, erano soddisfatti. Naturalmente c’erano anche attività più rischiose, quando la nostra azione di resistenza comportava anche azioni di sabotaggio.

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