#2/2016 – MASSIMO PACI con Emmanuele Pavolini

Negli ultimi decenni a cosa hai principalmente dedicato la tua attenzione di studioso?

20160914_112218il-mutamentoNegli anni Novanta ho continuato ad approfondire i temi che avevo messo a fuoco in precedenza: da un lato, gli studi sul welfare, dall’altro, quelli sulla mobilità sociale e la struttura di classe in Italia. Nel 1992 pubblicai Il mutamento della struttura sociale italiana, che rappresenta in certo senso il seguito delle mie riflessioni su questi temi, dopo il volume che avevo pubblicato dieci anni prima, La struttura sociale italiana: è interessante ricordare anche il sottotitolo di questo volume (Costanti storiche e trasformazioni recenti), a confedisuguaglianzarma delle radici antiche che aveva in me la passione per l’approccio storico-sociale[8]. Sempre nei primi anni Novanta curai anche il volume Le dimensioni della disuguaglianza, a seguito di una ampia ricerca che avevo coordinato per conto del CESPE di Roma.
Si trattò di un lavoro impegnativo anche per l’alto profilo degli studiosi che collaborarono al progetto (non solo sociologi, ma anche economisti). Di quegli anni sono anche due ampi saggi, che considero tra i miei meglio riusciti: Le trasformazioni della stratificazione sociale in Italia[9] e la voce “Struttura sociale” della Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani, nella quale l’approccio di sociologia storica diventa esplicito.

Cosa è cambiato con il trasferimento da Ancona a Roma?

Fui chiamato alla cattedra di Sociologia economica della Facoltà di Sociologia della Sapienza di Roma alla fine del 2001. Fin dall’inizio trovai un bel gruppo di studenti, che sembrava seguire con interesse le mie lezioni. Così, a un certo punto, demmo vita al Laboratorio Semper (Seminario permanente per lo studio dell’empowerment del cittadino).20160914_163703 Considero importante questa esperienza, dove si era creata l’occasione per discutere lo stato di ricerche in corso e dove si svolgevano anche seminari con studiosi esterni. E’ presso il Semper che ho svolto l’ultima mia “vera” lezione con il gruppo dei giovani dottorandi e ricercatori, alla quale seguì la lezione magistrale ufficiale davanti alla Facoltà. L’idea iniziale del Semper era di studiare il cambiamento sociale in atto in Italia, entro il quadro storico e teorico del “processo di individualizzazione”, come processo di lungo periodo di rivendicazione e crescita dei diritti civili e sociali. Nel 2005 pubblicai Nuovi lavori, nuovo welfare, che rendeva conto di questa ulteriore evoluzione del mio percorso di ricerca, dove riconsideravo sotto una diversa luce i due filoni di ricerca di cui mi ero occupato negli anni precedenti: il mercato del lavoro e le politiche sociali. Al centro delle riflessioni di quel libro stava adesso il concetto di “società pluriattiva”, con l’intento di valorizzare il ruolo economico del lavoro effettuato fuori dal mercato “ufficiale” (il lavoro familiare, quello volontario e l’economia associativa). Da qui sviluppavo un discorso sul riallineamento fra il tempo di lavoro e le attività fuori dal mercato. In questa ottica, le forme di attività lavorativa, svolte nell’ambito della reciprocità solidale, esprimevano adesso una domanda di “riconoscimento giuridico”.  semper-1

Negli anni più recenti sei ritornato sui temi e sul metodo della sociologia storica, dal quale era partito il tuo percorso di studioso…

skopcol_i-editionE’ vero. Come ti dicevo, l’interesse verso la “lunga durata” nello studio dei fenomeni sociali è una sorta di inclinazione originaria, una chiave di lettura che mi è capitato di mantenere negli anni. Nel mio anno ad Harvard, ad esempio, all’inizio degli anni Ottanta,20160915_162859 lessi States and Social Revolutions, da poco pubblicato da Theda Skocpol, che mi spinse a studiare più da vicino la sociologia storica comparata americana. Del resto, già l’incontro con Bendix a Berkeley, alla metà degli anni Sessanta, mi aveva lasciato il segno. Ma è in particolare durante i periodi di soggiorno all’estero degli anni Novanta e Duemila (prima – più volte – a Parigi e poi per pochi mesi alla Columbia di New York) che ho potuto lavorare sistematicamente su questo tema, raccogliendo le basi bibliografiche necessarie, a partire dal lavoro Comparative Historical Analysis in the Social Sciences, curato da James Mahoney e Diethrich Rueschemeyer, che considero assai importante.
20160914_105610Dopo il mio pensionamento ho potuto occuparmi a tempo pieno di questo tema e per tre anni ho lavorato ad un testo che sistematizzasse l’approccio e il metodo di questa “sociologia storica comparata”. La pubblicazione, alla fine del 2013, di Lezioni di sociologia storica ha rappresentato per me una specie di traguardo finale. Ho l’impressione però che il libro sia stato scambiato talvolta per un manuale di storia del pensiero sociologico. Ne approfitto per ribadire che così non è: certo, è stato scritto anche per un pubblico di studenti e dottorandi e per questo ha il taglio, un po’ didattico, delle lezioni; ma il filo conduttore è d’ordine metodologico sostantivo, investendo insieme la teoria e il metodo, a partire dal riconoscimento della natura temporalizzata o storicizzata del mondo sociale in cui viviamo. Come dice bene uno degli autori esaminati nel libro: ‹‹La società è un film, non una fotografia››.

Oggi ho la sensazione di un inaridirsi della curiosità intellettuale tra i sociologi italiani, giovani e meno giovani, compresi i sociologi dell’economia. Sembra quasi che si abbia paura di sviluppare un approccio di sociologia storica, perché si teme di perdere rigore scientifico. Si tratta di un errore gravissimo, che mostra in realtà la scarsa voglia di discutere delle basi sostantive della nostra metodologia. In realtà, la struttura causale del mondo sociale che ci circonda, per la sua natura temporalizzata o processuale, non è quella presupposta dalla “analisi per variabili” propria della metodologia mainstream statistico-quantitativa. La tecnica della narrativa storica, invece, per la sua natura “ricorsiva” che favorisce uno scambio continuo e progressivo fra il modello teorico che si ha in mente e la realtà che si studia, permette di cogliere molto meglio questa struttura causale processuale. Chi la utilizza usufruisce di una grande quantità di “data points”, inseriti nel corso del tempo: raccoglie, cioè, molte informazioni e può individuare i dettagli cruciali per la spiegazione, anche studiando solo pochi casi nazionali. 

Spesso non si discute del ruolo che la didattica ricopre nel percorso di uno studioso: quanto è stata importante questa dimensione nella tua esperienza di sociologo accademico?

Guarda, di recente ho chiesto a mia moglie di dirmi secondo lei che cosa avessi fatto in tutti questi anni di lavoro; mi ha risposto: ‹‹Fondamentalmente sei stato un insegnante!››. Penso che in qualche modo abbia ragione: ritengo che la didattica sia una dimensione molto importante per ciascuno di noi accademici, forse per certi aspetti è la più importante. Molte mie idee sono state elaborate durante i momenti di insegnamento: volendo spiegare agli studenti alcuni concetti e confrontandomi con loro, mi è capitato di modificare non poco le mie idee iniziali. Ho provato anche un certo divertimento ad insegnare. Spesso a lezione coinvolgevo gli studenti, spezzando la “sacralità” della seduta universitaria, con battute inaspettate e a volte con atteggiamenti ”anticonformisti”, che spiazzavano un po’ l’uditorio. Ma, in fondo, non è in questo “spiazzamento delle ovvietà sociali” che risiede il compito specifico del sociologo?

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