#1/2017: EMILIO REYNERI con Giovanna Fullin

Spostiamoci quindi sul periodo catanese: cosa ti spinse a trasferirti?

All’inizio, come ti dicevo, feci il pendolare: non avevo trent’anni anni e l’idea di viaggiare non mi creava problemi. Poi le prospettive di trovare un trasferimento a Milano diventarono minime per le vicende della Facoltà di Scienze politiche, che avevano visto emarginate le sociologie. Inoltre era nato mio figlio e, infine, Catania offriva prospettive notevoli di ricerca e insegnamento. Nella Facoltà di Scienze politiche era nato l’ISVI, un istituto sostenuto finanziariamente dal Formez e dal CNR, con lo scopo di fare la stessa operazione fatta a Milano, cioè un corso post lauream per sociologia e scienze politiche. C’erano anche fondi per fare ricerca e cominciarono ad arrivare giovani sociologi, politologi ed economisti da mezza Italia: Catania fu per parecchi anni una grande avventura di investimento, soprattutto per la sociologia del Mezzogiorno.

L’operazione era promossa da due persone: Franco Leonardi, ordinario di sociologia nei primi anni Settanta, fondatore e poi per vent’anni preside della Facoltà di Scienze politiche di Catania, e Alberto Spreafico, neo-ordinario di Scienze politiche a Catania. In quegli anni a Catania c’era la migliore biblioteca di sociologia e scienza politica a Sud di Firenze e grandi possibilità di far lavorare giovani neo-laureati, per i quali erano previste una decina di borse di studio ogni anno per un biennio: all’inizio venivano anche da altre città, andavano a fare interviste e raccogliere dati in sperduti comuni della Sicilia per mesi… per alcuni anni fu un’esperienza entusiasmante!

C’era poi l’aspetto famigliare: il paese di origine di mia moglie era a sessanta chilometri da Catania, dove studiavano le sue sorelle, e dove ebbi la fortuna di trovare una casa che ancora rimpiango: era una casa del Settecento, con soffitti alti dieci metri, il giardino col pozzo, il limone e il mandarino, nel centro di Catania, allora molto degradato, con la facoltà a cento metri e le vie del barocco siciliano a cinquanta; nella campagna dei genitori di mia moglie facevo il vino…

Fino al 1980 Catania fu una grande avventura: riuscivamo a far venire sociologi e politologi a fare lezioni e seminari da tutta Italia, ospitavamo visiting professors americani (tra i quali Robert Putnam, per fare un nome noto, e diversi antropologi che studiavano il Mezzogiorno). Grazie ai contatti internazionali di Spreafico riuscimmo a mettere in piedi una rete di studiosi dell’emigrazione dei paesi dell’Europa meridionale. All’epoca il tema era l’emigrazione di ritorno, naturalmente…

Da qui nasce quindi la tua ricerca sulla Catena migratoria. Mi racconti come inizia?

Anche quella un po’ per caso: scrivo alcune pagine sul problema dell’emigrazione meridionale di ritorno, in contrasto con un paper letto di recente. Franco Cazzola, allievo di Spreafico con compiti di gestione nell’ISVI e anch’egli trasferitosi a Catania, realizza che su questo tema si può ottenere un finanziamento di ricerca dal Formez. Si fece così una joint venture con l’Università di Napoli e con il Centro dei padri Scalabriniani di Roma[10], che aveva una buona biblioteca sui movimenti migratori e gestiva la rivista Studi Emigrazione, all’epoca diretta da Gianfausto Rosoli, il quale aveva studiato a lungo gli emigrati italiani negli Stati Uniti e prese parte al progetto.

Da metà anni Settanta soprattutto la Germania, ma anche la Francia e gli altri paesi dell’Europa centro-settentrionale, bloccarono gli ingressi di immigrati dall’Europa meridionale. Il motivo era la crisi economica determinata dalla crisi petrolifera, ma giocava sicuramente anche il fatto che in quegli anni con l’avvio della deindustrializzazione iniziava a cambiare la domanda di lavoro operaio poco qualificato. Per chi, come l’Italia, aveva alimentato l’emigrazione in questi paesi, la chiusura delle frontiere comportava un fenomeno di ritorni e mancate nuove partenze.

Il progetto sull’emigrazione di ritorno prevedeva l’organizzazione di seminari internazionali e scambi di visite con studiosi iugoslavi, greci, portoghesi e spagnoli: l’idea di avere contatti “orizzontali” tra i paesi di emigrazione non era assolutamente scontata in un quadro in cui, allora ancora molto più che ora, gli studi sui movimenti migratori erano concentrati nei paesi di arrivo. Il progetto prevedeva poi una ricerca empirica, che decisi di svolgere intervistando immigrati di ritorno in una quindicina di comuni della Sicilia orientale. Le interviste con questionario (una survey anche se il “campione” non rispondeva a canoni rigorosi) furono condotte da studenti post-lauream dell’ISVI. La rielaborazione del rapporto di ricerca costituì una parte importante del volume La catena migratoria, che uscì nel 1979. Negli altri capitoli analizzai i movimenti migratori in Europa con particolare riguardo al loro ruolo nel mercato del lavoro dei paesi di arrivo e di partenza, grazie alla generosità della biblioteca della Facoltà di Scienze politiche di Catania, che all’epoca consentiva di comprare tutto, in un contesto in cui non esistevano internet, banche dati, etc.. Per dei giovani sociologi, Catania ha avuto una stagione in cui offriva opportunità di fare ricerca assolutamente inaudite, soprattutto per il Mezzogiorno.

Quindi, da un approccio qualitativo sulle lotte operaie sei passato a una ricerca quantitativa?

In realtà durante il mio lungo percorso ho usato sia i metodi di ricerca quantitativi, che quelli qualitativi, a seconda dei problemi da studiare e delle informazioni disponibili o da costruire per affrontarli… Ti racconto la mia storia personale sull’analisi dei dati quantitativi, però comune a molti sociologi della mia generazione. Nella mia tesi di laurea c’era una parte empirica fatta su dati macro: il lavoro di calcolo delle varianze è stato fatto negli scantinati della Bocconi con una divisumma Olivetti e la tavola dei logaritmi. Poi alla Scuola sociologia arriva il Nibtab; Martinotti importa dagli Stati Uniti un ante-litteram di SPSS, che però abbiamo usato pochissimo. Nella ricerca di Pizzorno c’è un mio approfondimento sui livelli di sindacalizzazione (poi pubblicato[11]), in cui avrei voluto utilizzare un primordiale SPSS. Fu arruolato per questo compito Stefano Draghi, che inseriva le schede traforate IBM in un lettore che stava nel sotterraneo della Bocconi e, usando la linea telefonica, le inviava a un computer all’Euratom di Ispra; quindi se cadeva la linea, se una sola scheda non era in ordine, saltava tutto! Si trattava di fare semplici correlazioni, cosa che oggi fai con il cellulare: Stefano impiegò due mesi per farle, mentre io le realizzavo a mano… Anni dopo, nella ricerca sull’emigrazione di ritorno si trattava di analizzare i dati dei questionari: con Alberto Marradi andai per questo a Bari dove c’era lo Csata, l’unico centro di elaborazione dati nel Mezzogiorno. Passammo tre giorni, dalla mattina alla sera, dentro lo Csata a scrivere le istruzioni e perforare le schede per fare gli incroci, semplici incroci a tre variabili: si scrivevano le istruzioni sulle schede IBM, bastava sbagliare una virgola o uno spazio, per dover rifare tutto daccapo. La stessa cosa facemmo qualche anno dopo per la ricerca sul doppio lavoro, ma all’Osservatorio astronomico di Catania, dove i fisici avevano un calcolatore in cui era possibile far girare un primordiale SPSS. Un recensore italo-americano criticò il lavoro dicendo che la metodologia di analisi era elementare: aveva ragione, ma per l’epoca era quello che era disponibile!

Ne ho parlato recentemente con Piergiorgio Corbetta, che ricorda tutta la storia di chi è dovuto passare per queste fasi. A Piergiorgio e me sono mancati solo gli aghi da calza, che ricorda Massimo Paci, un po’ più vecchio di noi. Si potevano incrociare in pratica solo variabili con due modalità di risposta. Bisognava prendere delle schede quadrate, una per ogni rispondente, con tanti fori sui lati, e su ogni lato “segnare” le risposte alle domande: se la risposta era sì facevi un foro aperto, se era no il foro rimaneva chiuso. Facevi passare un ago da calza e alcune schede rimanevano nel pacco, mentre altre cadevano; poi per ognuno dei due pacchi passavi a un altro lato e passavi di nuovo l’ago, e così via. Alla fine le schede nei diversi pacchi indicavano chi stava nelle diverse celle di un’ipotetica tabella.

 

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