#1/2017: EMILIO REYNERI con Giovanna Fullin

Risulta difficile immaginare oggi un’analisi quantitativa con una dimensione artigianale così preponderante. Però nel tuo percorso ci sono ricerche sia di tipo quantitativo, che di tipo qualitativo. Poiché non è frequente che ciò accada, mi dici qual è la tua posizione su questo punto?

Dico che bisogna fare tutte e due i tipi di ricerca! Da un lato ci sono delle cose che puoi studiare solo in un certo modo, dall’altro c’è stato un aumento fortissimo della disponibilità di dati che era assolutamente impensabile anche solo pochi anni fa. Istituti statistici nazionali e internazionali producono ormai una grande quantità di informazioni sulla vita sociale, economica e culturale, mentre è diventato sempre più costoso (e quindi difficile) condurre survey da parte di singoli gruppi di ricerca (con la crescente eccezione delle indagini che si possono fare via internet). L’indagine qualitativa puoi continuare a farla e alcune cose puoi studiarle solo così, ma se hai da studiare un fenomeno che puoi affrontare con metodi quantitativi, perché hai le informazioni, devi farlo! Perché il qualitativo ha un difetto: che va in profondità, ma non puoi generalizzare. Quindi se puoi, se i dati ci sono, il suggerimento è di usare il qualitativo per approfondire l’analisi, mentre con il quantitativo si può ricostruire il quadro generale all’interno del quale collocare l’approfondimento. Se vuoi studiare i conflitti, ad esempio, devi usare metodi qualitativi, intervistare le persone, partecipare a riunioni, non c’è ombra di dubbio. Però se puoi avere delle informazioni quantitative, non utilizzarle è demenziale. L’ideale sarebbe mescolare tutte e due le cose: nella propria carriera un sociologo dovrebbe fare tutte e due le cose, perché così ci si rende conto dei limiti di entrambe. Certo è difficile fare entrambe le cose contemporaneamente, ma non è essenziale: basta sperimentarle entrambe.

Un altro problema che ritengo importante è il rischio, che alcuni corrono, di occuparsi di un unico tema per tutta la propria carriera. Al contrario c’è chi saltabecca da un argomento all’altro senza approfondire mai nulla. Bisognerebbe evitare di saltabeccare, ma anche di essere monotematici, perché se sei monotematico non c’è spazio per la cross fertilization, cioè non riesci a incrociare i problemi, se saltabecchi vai sui giornali e basta. Bisogna trovare una via di mezzo. Io in fondo mi sono sempre occupato di lavoro, però su argomenti anche molto diversi. Ad esempio le ricerche sul mercato del lavoro mi sono state molto utili per lo studio dei movimenti migratori e viceversa.

La ricerca sul doppio lavoro, invece, quando parte?

Nasce da un’idea di Luciano Gallino il quale, dai primi anni Ottanta, comincia a scrivere qualche articolo e a fare qualche piccola indagine sul tema, per poi convincere il CNR a finanziare una ricerca nazionale, coinvolgendo le sedi di Ancona, Napoli, Bari, Catania e Pisa. Nasce un gruppo di ricerca che si riunisce periodicamente per concordare il questionario e realizzare questa ampia ricerca, che portò alla pubblicazione di sei volumi del Mulino ed al volume di sintesi Il lavoro e il suo doppio, titolo che suggerii io, così come l’ironica epigrafe oraziana Dulce post laborem domi manere[12].

Questa ricerca con interviste su un tema sensibile mise un luce un problema spesso trascurato: il ruolo degli intervistatori. Il “campionamento” partiva recandosi presso fabbriche, uffici pubblici, scuole, e cercando di intervistare qualcuno. La domanda sul secondo lavoro ovviamente non era all’inizio del questionario ed era posta in termini generici (“Ma lei, oltre al lavoro di cui mi ha raccontato, svolge anche altre attività?): a Torino, dove le interviste erano affidate ad una società di sondaggi, quando l’intervistato rispondeva “no” gli intervistatori, pagati a questionario, passavano alla domanda successiva; a Catania, invece, i miei studenti o neolaureati coinvolti nel progetto insistevano a lungo e, alla fine, molti intervistati cedevano raccontando delle loro attività collaterali. La motivazione dell’intervistatore è dunque decisiva per il buon esito della ricerca.

La collaborazione tra sedi universitarie portò a scoprire che nel Mezzogiorno il doppio lavoro extra-agricolo (per lo più nei servizi) è altrettanto diffuso che al Centro-Nord. Ci fu una buona copertura mediatica e un acceso dibattito sindacale sul tema sollevato dalla ricerca, che ebbe anche effetti concreti: l’Istat iniziò a stimare nella contabilità nazionale le posizioni plurime (è l’unico Istituto di statistica che lo fa); nelle norme relative al pubblico impiego fu introdotto il part time per permettere di svolgere un secondo lavoro in regola, altrimenti non consentito. Poi il tema è scomparso dal dibattito pubblico. Forse anche per la tendenziale riduzione del doppio lavoro extra-agricolo registrata negli ultimi anni dall’Istat (ma i dati vanno presi con le pinze, perché le modalità di stima usate sono cambiate diverse volte).

A tuo parere cosa spiega il grande interesse di allora per il tema?

All’epoca c’era anche il discorso della riduzione dell’orario di lavoro, sollevato dal segretario della CISL Pierre Carniti; Bertinotti arriva poco dopo con le 35 ore. La riduzione dell’orario di lavoro era un cavallo di battaglia della CISL e poi lo diventa di un pezzo di sinistra politica. Si ricollega alla questione della possibilità di creare nuova occupazione. A metà anni Ottanta si era in piena crisi, quindi questo discorso era rilevante: il doppio lavoro di qualcuno si poteva trasformare nel primo lavoro per un giovane disoccupato? In realtà, sulla base di questa ricerca tutte le volte che ho ripreso questa questione ho cercato di spiegare che è praticamente impossibile sostituire il doppio lavoro con un primo lavoro, perché sono spezzoni di lavoro,  bisognerebbe ristrutturare la domanda che si rivolge ai doppio lavoristi, ecc. [13].

 

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