#1/2017: EMILIO REYNERI con Giovanna Fullin

Nella tua carriera ti è capitato di fare attività extra-universitaria?

All’inizio soprattutto attività di formazione per i sindacati, sia CGIL sia CISL, pur non essendo organico a nessuna delle due organizzazioni (questo ha comportato dei problemi quando si è esaurita la stagione dell’unità sindacale). Mentre ero a Catania ho partecipato alle attività di una scuola di formazione che la CGIL aveva istituito sulle pendici dell’Etna; ho insegnato a Spezzano Calabro, dove a dirigere la scuola sindacale della CISL meridionale era finito Bruno Manghi; per la Cisl ho fatto anche dei corsi al centro studi di Firenze, il cui direttore è stato a lungo Baglioni e poi Ettore Santi, di cui ero molto amico, purtroppo morto giovane: era il momento della CISL carnitiana, poi le cose sono molto cambiate. Quando sono tornato a vivere a Milano, sono stato coinvolto nell’attività dell’IRES CGIL, diretta prima da Regini e poi da Regalia: si trattava di un istituto che faceva lavori di ricerca, anche di elevato livello scientifico, spesso commissionati da enti pubblici locali (crollati quando in Lombardia andò al potere la destra), mentre i rapporti con il sindacato erano sempre più laschi, finché la segretaria della CGIL lombarda (allora Susanna Camusso) decise di sciogliere l’IRES, nonostante una mia proposta di trasformarla in una più leggera struttura di consulenza per il sindacato.

Invece l’attività di intervento e consulenza sulle politiche del lavoro e sull’immigrazione comincia a metà anni Ottanta, innanzitutto con la partecipazione a commissioni ministeriali. Da ministro del lavoro Gino Giugni aveva messo in piedi una commissione per la riforma della Cassa integrazione, presieduta da Franco Carinci, nella quale tranne Renato Brunetta e io gli altri erano giuristi del lavoro: fece molte audizioni, ma non produsse risultati. Poco dopo Fernanda Contri, ministro per gli affari sociali del governo Ciampi, nominò una vasta commissione per definire lo statuto dello straniero in Italia presieduta da un docente di diritto comunitario, Bruno Nascimbene, dove mi occupavo dei problemi del lavoro: la commissione stese un dettagliato progetto di legge, che finì in un cassetto. Qualche anno dopo, grazie al ministro per l’immigrazione Livia Turco, fu costituita per legge una Commissione per l’integrazione presieduta da Giovanna Zincone, politologa di Torino che qualche anno prima avevo coinvolto in un comitato europeo, che per tre anni promosse una rilevante attività di ricerca sugli immigrati in Italia (io mi occupavo dei problemi del lavoro) e suggerì alcune proposte. Alla scadenza, nel 2001, il nuovo governo di destra improvvidamente la abolì e l’Italia restò priva di uno strumento di analisi che avrebbe potuto essere di grande utilità. Infine, nel 2007-2008 feci parte di un pletorico comitato, presieduto da Carniti e nominato dai presidenti delle Camere (Bertinotti e Marini), che avrebbe dovuto redigere un rapporto sul lavoro in Italia, rinnovando un’analoga iniziativa degli anni Cinquanta. Ma anche per la precoce interruzione della legislatura l’impresa fallì e io mi limitai a scrivere una relazione sulla crescente partecipazione al lavoro delle donne. Altre partecipazioni in commissioni ministeriali (tutte a titolo gratuito) sono state di minor rilievo, ma un tratto comune e stimolante è stato la cooperazione con i giuristi del lavoro, cui in Italia è sempre stato affidato il compito di definire le politiche del lavoro (per motivi nobili e meno nobili, come ha scritto Michele Salvati in un articolo su Stato e mercato)[15].

Com’è lavorare con i giuslavoristi?

Ci fu una stagione in cui era molto facile, oggi si sono invece più rinchiusi nei confini disciplinari. Ho avuto occasione di lavorare in particolare con quattro giuslavoristi: Franco Liso, Franco Carinci, Mario Napoli e Pierantonio Varesi. Con Liso abbiamo fatto per il Cnel una ricerca sull’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti, cioè per gli stagionali, istituita da poco, rilevandone le anomalie; il nostro rapporto proseguì con una serie di incontri in varie occasioni, quando divenne sottosegretario al lavoro. Con Carinci invece per sette-otto anni organizzammo affollati convegni a Bologna, finanziati dal Cnel e dalla Regione Emilia (del cui Osservatorio sul mercato del lavoro Franco era responsabile), cui erano invitati come relatori sociologi del lavoro, giuristi del lavoro ed economisti del lavoro e che videro una significativa partecipazione di politici regionali e nazionali. Con Napoli e Varesi la collaborazione riguardò i servizi per l’impiego, ma in modi diversi: col primo, ideatore dell’Agenzia del lavoro della provincia di Trento a fine anni Ottanta, abbiamo scritto un articolo[16] per proporre una struttura dei servizi per l’impiego sul modello tedesco, purtroppo inascoltato, visto che per esigenze politiche (andava di moda il “federalismo amministrativo”) il decreto Montecchi del 1999 affidò i neonati servizi per l’impiego a regioni e province; col secondo, successore di Napoli alla presidenza dell’Agenzia di Trento, nel 1994 scrivemmo un progetto di legge sui servizi per l’impiego per la Regione Lombardia, ma quando Formigoni succedette alla giunta rosa-verde, frutto di Tangentopoli, il progetto finì ovviamente nel cassetto. Per i servizi per l’impiego ho svolto per parecchi anni una vera e propria attività professionale di consulenza, assistendo le strutture di alcune province e collaborando con una società privata.

Come nasce questa tua attività professionale?

Diciamo che nasce “dal basso”, cioè da un’esigenza di intervento sorta dove insegnavo. Nei primi anni Novanta scoppiano le grandi crisi aziendali e a Parma chiude la Salvarani: circa duemila dipendenti perdono il lavoro e l’amministrazione provinciale decide di tentare un intervento per aiutarli a ritrovarlo. Allora le Province non avevano un compito istituzionale, ma si muovevano in accordo con il sindacato e l’associazione degli industriali: a un economista di Parma, Gilberto Serravalli, e a me fu chiesto di fornire consulenza a degli operatori della Provincia per fare degli incontri domanda-offerta del lavoro, attività allora quasi ignota in Italia. Poco dopo nasce un’azione simile a Varese: anche lì è l’Amministrazione provinciale ad attivarsi, ma, invece dell’università, chiede consulenza a ISMO, un istituto di formazione aziendale con sede a Milano cui collabora Marco Carcano, ricercatore di sociologia a Parma, anch’egli allievo di Baglioni, che mi coinvolge nell’intervento. Una cosa analoga parte anche a Novara, dove il presidente della Camera di Commercio decide di mettere in piedi delle strutture per far incontrare i cassaintegrati, che ormai non avevano possibilità di ritornare in azienda, con le imprese. Sono i primi tentativi di politiche attive del lavoro: i servizi per l’impiego in Italia nascono con le crisi aziendali e con i tentativi di ricollocare i lavoratori in uscita, in quel momento furono esperienze innovative, che hanno segnato in parte la legislazione successiva.

Cosa ti porti a casa da queste esperienze?

Ho portato a casa la consapevolezza della grande importanza del ruolo dell’operatore dei servizi per l’impiego (ho scritto un articolo in proposito)[17]. La nascita dei servizi per l’impiego pubblici e privati in Italia deve molto a un giuslavorista, Pietro Ichino, con cui ho spesso amichevolmente polemizzato perché non credo abbia mai varcato la soglia di un centro per l’impiego. Io invece ho fatto il consulente per gli operatori, partecipando anche alle loro attività: nonostante lo sviluppo dell’informatizzazione, rimane essenziale il ruolo dell’operatore, che deve far incontrare le aspettative del lavoratore, spesso non adeguate alle sue competenze, e le esigenze dell’impresa, che invece richiede personale immediatamente fruibile. È incredibile che in Italia non sia nata un’associazione professionale degli operatori servizi pubblici per l’impiego come negli altri paesi sviluppati (forse perché sono quattro gatti, poco più di seimila, mentre in Germania sono novantamila e in Francia cinquantamila).

Per chiudere col tema delle collaborazioni, in questo racconto manca l’Istat…

La collaborazione con l’Istat è molto recente, inizia poco più di dieci anni fa, quando con te e Paolo Barbieri abbiamo partecipato all’analisi di una ricerca sull’uso dei tempi. Però ho cominciato ad interessarmi delle rilevazioni Istat delle forze lavoro molto prima. Quando ancora ero a Catania Baglioni, che dirigeva il Cesos, un centro di ricerca Cisl, mi aveva affidato la redazione di un capitolo su Politiche e mercato del lavoro in un annuario di relazioni industriali edito dal Cnel. Così per cinque-sei anni ho descritto l’andamento del mercato del lavoro italiano, elaborando dapprima i dati aggregati pubblicati dall’Istat e poi i micro dati. Credo di essere stato il primo ricercatore al di fuori dell’Istat ad usare i micro-dati sulle forze lavoro, la prima volta ottenuti in modo rocambolesco: intorno al 1987, non ricordo come, incontro il funzionario all’epoca responsabile della rilevazione forze lavoro, che mi ha dato brevi manu un dischetto con i micro-dati di un secondo trimestre; poi per parecchi anni sono andato regolarmente in un ufficietto dell’Istat, dalla signora Tolu, a comprarli a caro prezzo.

I rapporti con l’Istat diventano significativi quando dirigente dell’area statistiche sociali diventa Linda Laura Sabbadini, che mi riferì di aver studiato il mercato del lavoro sul mio manuale (a questo proposito voglio ricordare il grave danno che la ricerca sociale nell’Istat sta subendo per l’incomprensibile estromissione della Sabbadini dalla dirigenza: l’infelice rapporto annuale del 2017 ne stato è il primo segnale). Oltre al recente convegno sulle due grandi crisi in Italia, l‘occasione più importante di collaborazione è stata la partecipazione al comitato scientifico per il rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES), cui i sociologi diedero un rilevante contributo, seppure non riconosciuto quando si trattò di costituire un comitato per monitorare alcuni indicatori non meramente economici di BES inseriti nel Documento di Economia e Finanza (DEF) tra gli obiettivi dell’azione di governo. Un by product del grande lavoro svolto nel BES è stato Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi, scritto con una ricercatrice dell’Istat con la quale avevo collaborato in quella occasione, Federica Pintaldi. Anche in questa occasione il caso ebbe un ruolo non piccolo: nel 2012 ci si avviava alla prima abilitazione con nuove modalità. Scrissi un indice con le 10 domande per il volume e lo inviai a Federica e al Mulino, dicendo “Se sarò estratto per far parte della Commissione di abilitazione, potete pure stracciarlo”. Non fui estratto, e così scrivemmo il libro, che ha avuto una buona accoglienza: il taglio è volutamente divulgativo, anche se forse ci sono troppi numeri, indigesti per un pubblico per lo più privo di una cultura socio-economica come quello italiano.

 

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