#2/2017: SILVIA GHERARDI con Attila Bruni

Nell’intervista a SILVIA GHERARDI di Attila Bruni, come matrioske russe, le domande schiudono ulteriori risposte, che generano altre domande. Si parte dalla fine, ovvero dal tempo liberato dopo il pensionamento, con quotidiane gite in bicicletta, sciate, passeggiate, quasi a risarcire la propria corporalità dei tributi pagati alla vita lavorativa: tra questi, la necessità di mettere “il corpo nell’armadio”, a fronte delle richieste di contesti organizzativi apparentemente neutrali, ma delineati sul modello del lavoratore maschio. Spunti personali per un tema che costituirà uno dei fils rouges in cui si dipanano le sue attività di ricerca, ovvero la dimensione di genere nello studio del lavoro e delle organizzazioni. Lo spazio per la ricerca e per le altre attività intellettuali è comunque preservato, liberato dai suoi aspetti più ingrati, anche nella sua attuale fase “post-occupazionale”. Non potrebbe essere altrimenti, vista la forte passione e il piacere provati dall’intervistata per il lavoro accademico, inteso come “arte della fuga e dell’inseguimento” delle idee proprie e altrui, realizzato secondo una concezione beckeriana del lavoro artistico come azione collettiva, condivisa attraverso lo scambio di saperi, esperienze, entusiasmo ed energie, tra colleghi e colleghe di diverse generazioni e contesti, empaticamente connessi dalle comuni passioni. Con loro intesse un dialogo tanto aperto alla sperimentazione e curioso rispetto a possibili deviazioni di percorso, quanto avverso alla scelta di confortevoli strade già battute e, anche per questo, più affascinato dalla ricerca qualitativa che dall’approccio positivistico, nelle forme aprioristiche e standardizzate spesso privilegiate dalle riviste internazionali mainstream. Seppure l’esperienza passata e altrui non possa insegnare – come, non senza modestia, avverte l’intervistata – può comunque prospettare alle nuove generazioni di sociologi e sociologhe la possibilità di percorsi meno scontati, ma più avvincenti. 

Da qualche anno (quattro, se non ricordo male) sei in pensione… come trascorri il tuo tempo?

Sono andata in pensione nel febbraio 2014, salutando i colleghi con una Lectio Magistralis[1], che è stata un modo molto simpatico di prendere congedo dall’Università di Trento dove sono stata studentessa prima e docente poi per ben quarantaquattro anni! Nell’aprile 2014 mi sono sposata con Antonio Strati e siamo partiti per un viaggio di nozze in Groenlandia. Pensa che la nostra bisnipote Greta potrà dire di essere stata presente al matrimonio dei suoi bis-nonni![2] Solo dopo ho cominciato a sentirmi in pensione…

L’idea della pensione apre ad un immaginario di tempo ‘liberato’ dal lavoro e dunque ‘libero’ per altre innumerevoli attività. Una volta in pensione ho realizzato che questo tempo era in quantità finita e non poteva accogliere tutti i miei desideri in contemporanea. Comunque, in questo tempo ‘liberato’ ho inserito lo sci d’inverno il mattino e lettura/scrittura nel pomeriggio (sul Monte Bondone), il nuoto d’estate il mattino e lettura/scrittura sul balcone nel pomeriggio (in Liguria) e la palestra quasi quotidiana. Il mio corpo è stato molto contento e mi ringrazia sempre. Nel mio tempo ‘libero’ ho spostato l’attività lavorativa e quella culturale. Infatti, vivo a Parigi in primavera ed in autunno, dove passo il mio tempo tra una mostra, un cinema d’essai, un teatro ed un seminario (seguo i seminari di Hélène Cixous e altri più ‘professionali’). Infine, ho tenuto un’attività professionale che in questi quattro anni mi ha dato molte soddisfazioni. Ho avuto un contratto a Helsinki con Aalto University per due anni e mezzo ed ho ancora un contratto con l’Università di Oslo che dura ormai da cinque anni. Lavoro con i dottorandi e con i giovani all’inizio della carriera per trasmettere loro i trucchi del mestiere (pubblicare, scrivere progetti, fare presentazioni). Ho incontrato molte persone meravigliose, piene di entusiasmo, con voglia di sperimentare e di rischiare. Mi danno energia, mi divertono e mi arricchiscono molto. Continuare a stare nell’ambiente accademico internazionale mi offre l’occasione di essere richiesta come valutatore (dovrei dire valutatrice?) di dipartimenti, scuole, progetti europei o programmi di finanziamento di ricerca, e questo è un modo per sapere come si orientano la ricerca ed il dibattito nella nostra disciplina.

Come vedi, Attila, il tempo è tiranno! Vorrei avere più tempo per giocare con le mie bis-nipotine (adesso sono due, Greta e Irma), che crescono così rapidamente, e per stare con gli amici in chiacchiere, a perdere tempo……

 

Dunque non sei riuscita a resistere al desiderio di inserire comunque nel tuo tempo ‘libero’ un po’ di lavoro: ma cosa c’è di così interessante nel lavoro accademico? Provocatoriamente ti chiedo: le tue bis-nipotine non sono gelose del tempo che passi con dottorandi/e e giovani ricercatori/trici?

Nel lavoro accademico, inteso come leggere/scrivere, c’è la passione dell’inseguire le idee proprie e altrui. Ovviamente le idee scappano, sono sempre un po’ più in là e non si lasciano acchiappare facilmente. È l’arte della fuga e dell’inseguimento. Mi affascina provare a cambiare prospettiva e capire da quale prospettiva scrive un autore o un’autrice e come potrebbe cambiare il suo pensiero se si capovolge la prospettiva. In questo c’è anche una dimensione relazionale, un dialogo aperto con gli autori e le autrici che amo. Mi piace vedere se e come si sviluppa il loro pensiero, quali interessi seguono, quali strade battono. Nel tempo si è come auto-selezionato un gruppo di autori che seguo regolarmente perché trovo spesso interessante il loro lavoro e con i quali ho un dialogo, virtuale o reale. Si formano così, per empatia, piccole comunità…

Tu mi chiedi cosa trovo interessante nel lavoro accademico con i colleghi più giovani e penso tu ti riferisca al mio lavoro a Oslo o Helsinki o nelle scuole di dottorato. Credo sia un privilegio cercare di capire come nascono le curiosità intellettuali, poter contribuire ad indirizzarle e offrire un orecchio amico a chi vuole ragionare a voce alta. Il privilegio consiste anche nel fatto di non avere responsabilità istituzionali nei loro confronti e quindi il rapporto è più libero da entrambi i lati. In queste relazioni c’è il piacere della condivisione di ciò che io so e di quanto i più giovani sanno e cercano di sviluppare. Poi ovviamente c’è anche il lato penoso della passione: i dottorandi sono spesso persone molto ostinate ed è un bene che lo siano, ma a me dispiace quando inseguono strade che sono già state battute invece di leggere e di aprirsi alla sperimentazione. Questo è un giudizio molto soggettivo, ma confesso che quando leggo ancora frasi del tipo: “i dati dicono che…” o “i dati dimostrano che…” provo l’istinto atavico di saltar loro alla giugulare. Non lo faccio, ovviamente, e cerco di convincermi che, dopo tutto, sono cresciuti in una cultura positivista e quindi non è tutta colpa loro…

Tu sai poi, per esperienza personale, che a me piace scrivere collettivamente[3]. Non è cosa facile e non con tutti riesce bene, ma quando finisce la pena del processo di scrittura, rimane la soddisfazione dell’impresa collettiva e si ricorda il divertimento, dimenticando le fatiche.

Per finire, le mie bis-nipoti: non è da loro che possono venire le gelosie!!!

 

Conoscendoti, penso di intuire a cosa ti riferisci e vedo affiorare nella tua risposta diversi temi che caratterizzano il tuo lavoro di ricerca: la curiosità per le idee e i pensieri che provengono da dibattiti ‘laterali’ rispetto alla letteratura mainstream; la capacità di tenere assieme discorsi apparentemente molto diversi tra loro e di farli dialogare con i tuoi pensieri e le tue convinzioni; la preferenza per l’aspetto processuale dei fenomeni; la ricerca come occasione per imparare ogni volta qualcosa ‘in più’; l’apprendimento (e il lavoro) come processo collettivo; e, dulcis in fundo, un’ostinata ironia nei confronti della “cultura positivista”… Ma tu dove hai imparato tutte queste cose? Tutto sommato anche tu sei cresciuta in una cultura accademica di stampo positivista, o no?

Mi stai chiedendo come sono diventata post-positivista? Non ho mai pensato al mio percorso come ad una traiettoria dal positivismo ai vari ‘post’. Forse la linearità implicita in una traiettoria non è la soluzione migliore per parlare di un percorso, che è molto più casuale e collettivo di quanto può apparire a prima vista. Certamente, anche io sono figlia di una cultura positivista le cui tracce possono riapparire ancora in modi imprevisti; tuttavia nelle scelte epistemologiche c’è anche una dimensione estetica. 

Ti faccio un esempio ‘biografico’. Quando sono arrivata alla Facoltà di Sociologia, ero una giovane donna ed aspettavo un figlio. Il mio primo incontro con il pensiero sociologico è passato per Erving Goffman e per il libro Asylum. Era il 1969 e in facoltà ero stata attratta da un gruppo che leggeva Goffman in relazione all’esperienza politica dell’antipsichiatria e al libro di Franco Basaglia su Gorizia e l’istituzione negata. Leggere Goffman, Harold Garfinkel, Peter Berger e Thomas Luckman, scoprire l’etnometodologia e l’etnografia era per me sicuramente più affascinante di Talcott Parsons. Anche più avvincente! L’inclinazione verso l’interazionismo e la ricerca qualitativa esprime una mia scelta estetica, che non vuole negare, né sottovalutare il fascino discreto dei numeri e dei modelli log-lineari!

La strada verso il post-positivismo – o meglio verso le post-epistemologie – è andata costruendosi attraverso percorsi molteplici. Dal femminismo ‘technoscience’ (Donna Haraway) all’Actor-Network Theory (Bruno Latour, John Law, Michel Callon) al new (feminist) materialism (Karen Barad) e più recentemente al dibattito sulle post-qualitative methodologies (Elisabeth St. Pierre) e sul cosiddetto ‘turn to affect’ (Brian Massumi). Naturalmente queste influenze epistemologiche sono state portate dentro nel filone dei ‘practice-based studies’ dove si situa il mio contributo più consistente, sviluppato intorno al tema della conoscenza pratica e del conoscere come attività collettiva e situata nelle pratiche.

Avrei detto che il tuo contributo più consistente si situa nella sociologia del lavoro e negli studi organizzativi, come riconosciuto anche dalle lauree honoris causa e dall’Honorary Membership[4] che hai ricevuto nel 2008 da parte dello European Group of Organization Studies! Raccontami come ti avvicini a questo campo di studi, a partire da una tesi di laurea sul sistema scolastico in Unione Sovietica…

Hai certamente ragione, la mia collocazione disciplinare è nella sociologia del lavoro e dell’organizzazione. Il discorso sul positivismo e le epistemologie post-positiviste mi ha portato troppo lontano! D’altronde, chi potrebbe saperlo meglio di te, visto che abbiamo scritto assieme un libro di testo[5] per rileggere la sociologia del lavoro attraverso la lente della conoscenza pratica e dunque del lavoro come conoscenza in azione. Quello che mi viene riconosciuto come contributo innovativo in quel movimento che va sotto il nome di ‘practice turn’ è la riproposizione del concetto di pratica (che ha una rispettabile tradizione sociologica!) per poter analizzare l’apprendimento organizzativo allontanandosi tanto dal cognitivismo quanto dal knowledge management.

Attraverso la definizione di apprendimento come partecipazione alle pratiche lavorative, di conoscenza come attività, come un fare collettivo e situato, ho contribuito ad indirizzare la ricerca verso le pratiche lavorative come luogo in cui si produce, si conserva e si cambia il sapere pratico, la conoscenza sensibile e tacita. Come vedi è sempre intorno alle pratiche epistemiche che sto girando. Tieni presente che il libro curato da Theodor Schatzki, Karin Knorr Cetina e Eike von Savigny, The practice turn in contemporary theory, libro che ha tenuto a battesimo il practice turn, esce nel 2001. Negli studi organizzativi esce nel 2000, a mia cura, un numero monografico della rivista Organization, che presenta i contributi sul tema e che deriva da un symposium, organizzato nel 1998, all’Academy of Management, assieme a Davide Nicolini e Dvora Yanow.

Credo che la laurea Honoris Causa a Roskilde[6] nel 2005, quella a Kuopio[7] nel 2010 e quella a St. Andrews[8] nel 2014 siano state un riconoscimento di questo contributo (così almeno mi è stato fatto credere!).

Se poi vuoi sapere della mia tesi di laurea sul sistema educativo nel 1974, ho una bella storia da raccontarti. Nel 1996 – quando già esisteva RUCOLA [9] e quando stavamo facendo ricerca sull’apprendimento della sicurezza nei cantieri edili entro la ricerca europea coordinata dalla Daimler Benz Foundation – esce il libro di Cristina Zucchermaglio Vygotskij in azienda: ho avuto allora come una rivelazione, come uno di quei flashback che si vedono al cinema. Mi sono tornati in mente tutti assieme: Lev Vygotskij, Vasiliy Davydov, Aleksei Leontiev, Rosa Luxemburg. Avevo letto la psicologia culturale sovietica per la mia tesi di laurea e avevo letto sull’Activity Theory prima di incontrare Cristina, Yurjo Engeström ed il Center for Research on Activity, Development and Learning di Helsinki. Non hai idea di come mi abbia divertito il fatto che qualcosa studiata più di venti anni prima, entro un contesto completamente diverso, potesse tornarmi utile per quello che stavo studiando poi e per le persone che ho incontrato grazie a quel concetto di apprendimento.

Chiaro: come ci siamo detti più volte, il pensiero è ricorsivo e collettivo, più che individuale e isolato nel tempo. Visto che li hai citati, spostiamo il discorso sulla conoscenza come pratica e sull’apprendimento organizzativo come partecipazione competente ad una pratica. In uno dei primi contributi che scrivemmo insieme, raccontavi che tra le prime cose che avevi dovuto imparare per stare in accademia (in Italia) c’era il “lasciare il corpo nell’armadio”… e oggi? Quali sono a tuo parere le pratiche essenziali su cui si fonda l’accademia italiana? Cosa suggeriresti a giovani ricercatori e ricercatrici di imparare al più presto?

Le tue domande sembrano le matrioske russe: sono una dentro l’altra e mi mettono nell’imbarazzo della scelta! Devo cominciare con il raccontare la storia del ‘lasciare il corpo nell’armadio’, altrimenti l’espressione rimane criptica per chi ci legge… Nell’ufficio che condividiamo c’è (ancora) un poster incorniciato che rappresenta un quadro di René Magritte in cui, dentro ad un armadio semiaperto, si vede appesa una camicia da notte da donna con le fattezze di un corpo femminile. Era il poster di una mostra su Magritte a Roma che avevo visto in compagnia del nostro collega e amico Attilio Masiero dopo una riunione di lavoro. L’avevo comprato nei miei primissimi anni di lavoro e mi ha accompagnato lungo tutta la mia vita lavorativa.

Perché quel poster mi parlasse in modo così particolare l’ho capito solo alcuni anni dopo, probabilmente continuando a lavorare sul genere e sul simbolismo (non voglio scomodare la psicanalisi!). Nel capitolo che abbiamo scritto assieme[10] c’è l’immagine di quel quadro ed il racconto di come quella camicia da notte dalle fattezze femminili fosse venuta a rappresentare per me il mio corpo di giovane donna che avevo relegato dentro un armadio per potermi conformare ad un ambiente di lavoro decisamente ‘al maschile’. In quello scritto, a partire da un paio di esperienze che avevamo vissuto, ragionavamo del modo in cui le culture organizzative inscrivono il genere, hanno difficoltà a rapportarsi alle differenze ed in ultima analisi modellano i corpi e le menti delle persone sul principio del ‘one size fits all’. Considera anche che l’accademia vent’anni fa era molto più maschilista, l’attenzione al linguaggio discriminante era quasi assente, alcuni temi di ricerca impensabili e via dicendo. C’è ancora molta strada da fare, ma non bisogna sottovalutare che molta strada è anche stata fatta, nonostante la trappola del ritorno alle relazioni di genere del passato sia sempre dietro l’angolo. I rapporti di genere sono rapporti di potere e l’accademia ha una speciale predilezione per la gestione simbolica del potere.

In quanto a cosa suggerire d’imparare al più presto ai giovani ricercatori e ricercatrici per navigare nell’accademia, ebbene non ho proprio nulla da dire, perché ogni cosa sarebbe inappropriata. Non s’impara dall’esperienza altrui, l’accademia è cambiata, le persone sono molto diverse tra loro, le loro storie sono differenti e via dicendo. Le ‘lezioni di vita’ s’imparano sempre a posteriori, così come io ho saputo solo molto tempo dopo cosa rappresentasse per me quel quadro di Magritte. Però posso sempre ripetere qui quello che ho sempre detto ai dottorandi e dottori di ricerca che sono passati per il dottorato Internazionale[11] in Information Systems and Organization (IS&O) che per dieci anni, dal 2000 al 2010 è stato attivo a Trento. Non mi sono mai stancata di suggerire di andare all’estero e di cercare delle posizioni fuori dall’accademia italiana. Molti hanno seguito il suggerimento ed oggi i nostri dottori di ricerca sono a Londra, Leeds, Dundee, Dublino, Limerick, a Göteborg e a Västeräs in Svezia, Copenhagen, Coimbra, a Madeira… e pure in Italia. È una soddisfazione vedere come i dottorandi di IS&O di Trento siano stati apprezzati e abbiano ottenuto delle posizioni in maniera trasparente e senza bisogno di ‘santi in paradiso’.

Quanto a matrioske anche le tue risposte non scherzano, quindi dovrai concedermi ancora un paio di domande… La prima ha a che fare con il presente: cos’hai letto di bello ultimamente? Hai per caso scoperto un articolo, libro, autore o autrice, che ti ha particolarmente ispirato? Ricordo che qualche tempo fa mi dicevi che, pur disponendo di tempo per leggere (e pur leggendo), fatichi a trovare qualcosa che ti entusiasmi davvero…

Si, sono una lettrice onnivora, quasi compulsiva! Questa estate però sono tornata ai vecchi amori. Ho riletto Elias Canetti, Massa e potere, in italiano prima ed in inglese dopo. È un autore che mi ha sempre molto colpito e avevo una ragione ‘professionale’ per farlo perché volevo presentare una lettura canettiana dei fatti di Torino. Se ricordi, il 3 Giugno di quest’anno (2017), in Piazza San Carlo, alla finale della partita Juventus-Real Madrid, c’è stato un episodio di panico che ha provocato 1.527 feriti ed una donna è morta. Avevo da fare il keynote speach ad un seminario su Doing Research in Extreme Contexts[12] e questa è stata l’occasione per tornare ad un autore che ammiro immensamente e per tornare anche a lavorare sulla sicurezza ed i disastri.

A proposito della lettura narrativa ho appena finito quello che secondo me è un classico della letteratura francese: Annie Ernaux, La place. È un libro uscito nel 1984 ed è un tenerissimo ricordo di una figura paterna in un villaggio natale della Normandia. Adesso con il kindle è così facile accedere alla letteratura in lingua originale che faccio delle scorpacciate di letteratura sudamericana, tornando alla lingua della mia infanzia[13]. Di solito non leggo romanzi in inglese perché l’inglese è per me la lingua di lavoro e quindi cambiare lingua mi fa staccare con la testa dal lavoro.

Tornando alle letture di lavoro, è vero che commentavo sulla mancanza d’innovazione negli articoli delle riviste maggiori, dove in genere dalla prima occhiata si potevano già indovinare le conclusioni. Questo è l’effetto dell’accademia neo-liberista: la pressione a pubblicare sulle riviste cosiddette ‘internazionali’ (che poi sono anglo-americane e mainstream!) produce un effetto di standardizzazione e appiattimento. Forse negli ultimi tempi qualcosa sta cambiando nel senso che ad esempio gli studi organizzativi si stanno aprendo a temi più sociali come la sostenibilità, la corruzione, il cibo o il rapporto con gli animali. Il pensiero critico sui processi organizzativi in relazione con la sensibilità ambientalista sta prendendo piede. Infatti, è l’organizzazione della società nel suo complesso ad essere messa in discussione.

Volevo farti un’altra domanda, ma la tua risposta mi ha incuriosito (tutta colpa delle matrioske!): non potresti dirmi qualcosa di più circa una lettura canettiana dei fatti di Torino?

Confesso che m’imbarazza fare un super-riassunto, ma se proprio non puoi aspettare che abbia scritto l’articolo, ti anticipo il ragionamento per grandi linee. Sono andata a disturbare Canetti perché lui descrive una tipologia di massa a seconda dei processi di formazione e di dissoluzione. Quindi delinea anche una idea dinamica di come una massa possa cambiare improvvisamente. In particolare poi Canetti definisce il panico come una dissoluzione della massa dentro la massa stessa. Io riprendo questa visione del panico per trasportarla nel dibattito sui contesti estremi ed argomentare che la paura del terrorismo oggi innesca fenomeni come quelli di Torino. Ti ricordo che una delle prime interpretazioni che la stampa ha fornito era che un ragazzo aveva fatto scoppiare un petardo e, forse, gridato ad un attentato. Potremmo parlare di un terrorismo virtuale o semplicemente che i contesti estremi non sono solo quelli che sono stati studiati in relazione alle spedizioni ‘estreme’ in alta montagna o simili situazioni limite, bensì contesti di vita quotidiana, come l’andare in piazza per una manifestazione sportiva o altri tipi di manifestazione, possono trasformarsi in contesti estremi senza alcun preavviso. Quindi tutta la rete organizzativa che dovrebbe prevedere e provvedere alla sicurezza entra in tilt a fronte di un evento inatteso. Da qui si ritorna alla domanda iniziale del convegno a cui ho presentato il mio contributo, e cioè come le organizzazioni possano apprendere a gestire contesti estremi. Questa seconda parte la leggerai ad aprile, quando avrò scritto l’articolo! Comunque ho la sensazione che noi sociologi dovremmo tornare ad occuparci della folla e delle masse al tempo del terrorismo.

Anche Latour, una trentina di anni fa, diceva qualcosa a proposito delle “masse mancanti” in sociologia (per quanto lui si riferisse alle tecnologie e ai non-umani, più che alle persone in carne e ossa). La chiusa della tua risposta, in ogni caso, mi dà modo di tornare a quanto volevo chiederti prima. Dici che i sociologi dovrebbero tornare ad occuparsi della folla e delle masse: di cos’altro secondo te sarebbe il caso la sociologia tornasse ad occuparsi? O, in alternativa, quali temi o ‘nuovi’ oggetti di ricerca potrebbero essere inaugurati? In altre parole ancora: se dovessi fare una scommessa circa i temi, i concetti e/o le parole chiave che segneranno i prossimi anni, su cosa punteresti?

È divertente fare delle previsioni per poi scoprire a dieci anni di distanza quanto c’eravamo sbagliati! Tuttavia Latour potrebbe essere soddisfatto perché il tema delle “masse mancanti” cioè delle materialità, tanto nella forma della pervasività delle tecnologie e delle loro interconnessioni, quanto nella forma delle arti, continuerà a porre interrogativi sugli effetti che esse producono nel tessuto sociale. L’interconnessione tra l’umano, altre forme di vita più o meno umane e l’ambiente porta a considerare l’agency come distribuita e far perdere agli umani una falsa posizione di privilegio. Di conseguenza il punto forte della sociologia – il metodo – dovrà essere ripensato. Come definire ‘il sociale’? Come studiare ‘la post-socialità’? Queste questioni non sono nuove, ma hanno bisogno di risposte nuove, di risposte che costruiscano una socialità in cui sia bello rispecchiarsi e quindi aprono tanto all’etica quanto all’estetica.

E allora, se è vero che il metodo è il punto forte della sociologia, quale domanda conclusiva[14] non posso esimermi dal chiederti se c’è qualcos’altro di cui non abbiamo parlato che ti piacerebbe esplicitare…?

No: lasciamo che questa conversazione resti aperta e che mantenga il suo ritmo. Ho l’impressione che, come ogni buona conversazione, potrebbe continuare ancora e ancora…

Note al testo e alle immagini (a cura di Silvia Gherardi)

[1] Nella foto si possono riconoscere Antonio Schizzerotto nel suo ruolo di decano e Giuseppe Sciortino come direttore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento, che presiedono l’apertura della Lectio Magistrale il 25 Febbraio, 2014. Il titolo della lectio: ‘Una vecchia storia: i limiti della razionalità’ riassume la riflessione sulla trasformazione del significato e del valore della razionalità che ha accompagnato la mia carriera.

[2] Il bebè che assiste al matrimonio dei suoi bisnonni testimonia del trionfo delle istituzioni sulle soggettività dei bisnonni che hanno dimenticato il perché erano contrari al matrimonio. Come ha commentato l’amico e collega Marco Depolo, si tratta di un matrimonio riparatore!

[3] Nell’immagine, un collage di testi individuali e collettivi scritti negli anni con i co-autori abituali: Barbara Poggio, Attila Bruni, Antonio Strati.

[4] Barbara Czarniswska mentre sta facendo la laudatio per l’honorary membership dell’European Group for Organizational Studies, che mi venne attribuita nel 2008.

[5] A. Bruni, S.Gherardi (2007) Studiare le pratiche lavorative, Il Mulino, Bologna.

[6] Nel settembre 2005, l’Università di Roskilde (Department of Social Science) mi ha dato la mia prima laurea honoris causa. Ho avuto una lunga ed ininterrotta collaborazione con la Danimarca, iniziata nel 1984 quando Guido Romagnoli invitò a Trento Poul Olsen ed il contatto prosegue ininterrotto. Ho passato diversi periodi di visiting professorship, a Roskilde, a Copenaghen alla Copenaghen Business School ed ho fatto parte della Doctoral School of Organizational Learning (DOCSOL) (2004-2010), coordinata da Bente Elkjaer, University of Aarhus.

[7] Nel 2010 mi ha conferito il titolo di Doctor Honoris Causa la Faculty of Business and Information Technology dell’Università di Kuopio (oggi University of Estern Finland).

[8] Nel giugno 2014 l’Università di St. Andrews mi ha dato la laurea honoris causa e Nic Beech ha fatto la Laudatio.

[9] Nel 1993, all’interno del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento è stata fondata la Research Unit on Communication, Organizational Learning and Aesthetics (RUCOLA) il cui fine è di condurre ricerche sui temi legati alla conoscenza, l’apprendimento, l’estetica organizzativa, le nuove tecnologie e le forme di lavoro atipico. Ovviamente non poteva mancare l’impegno sul genere che nel tempo si è consolidato dando un contributo fondamentale alla creazione del Centro Interdisciplinare di Studi di Genere, nel quale sono attive molte delle persone che afferiscono a Rucola.

[10] Questo è il poster al quale abbiamo fatto riferimento nell’articolo: A. Bruni, S. Gherardi, “En-gendering Differences, Transgressing the Boundaries, Coping with the Dual Presence”(2002), in I. Aaltio-Marjosola & A. J. Mills (eds.), Gender, Identy, and Organizations, Routledge, London.

[11] Un momento di lavoro di gruppo durante un Doctoral Seminar organizzato a Trento dal dottorato in Information Systems and Organization. Da sinistra a destra: Luca Verzelloni, Gessica Corradi, Barbara Poggio, Alberto Zanutto, Annalisa Murgia e la sottoscritta. Il dottorato era nato da una collaborazione tra informatici e sociologi alla scopo di fare ricerca sui processi di adozione e trasformazione delle tecnologie ICT nei contesti di lavoro e sugli impatti sociali sul lavoro.

[12]Doing research in extreme contexts: what can be learned?’, 3rd International Workshop, October 19-20, 2017 Paris, France. Seminario organizzato da IAE Paris Sorbonne Graduate Business School.

[13] I miei genitori sono emigrati in Venezuela dopo la Guerra ed io ho fatto fino alle elementari a Caracas. Ho continuato ad usare lo spagnolo ed amo molto questa lingua.

[14] Abbiamo scelto di chiudere l’intervista con questa foto perché ha una storia da noi condivisa: è stata scattata dal fotografo ‘ufficiale’ del convegno EASST ‘Practicing Science and Technology, Performing the Social’ che Attila Bruni ha organizzato nel settembre 2010 e che ha richiamato a Trento più di ottocento partecipanti; il fotografo ha trovato divertente vedermi arrivare in bicicletta per la relazione introduttiva al convegno e mi ha mandato questa foto che trovo emblematica della qualità della vita a Trento.

 

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