#3/2014 – MARINO REGINI con Gabriele Ballarino

regini 1 Riprendiamo il filo della tua carriera accademica in Italia: quali tappe segnano il passaggio da professore associato a ordinario e quali ricordi conservi delle diverse sedi?

Ero stato a Urbino dal ’73 al ’77, ma nel ’75 divenni assistente ordinario a Milano,  dove ottenni nel ’77 anche un incarico, poi divenni associato, e ci rimasi fino all’88, quando fui chiamato come ordinario a Trento da Guido Romagnoli (il concorso da ordinario, allora nazionale, lo avevo vinto nel 1985, ma per varie vicende i vincitori non furono chiamati per tre anni).  Conferenza_1988_JMI

L’Istituto di Sociologia di Milano era un ambiente, come dire, vivace ma un po’ anarchico. Non c’era nessuna figura di leader: per un po’ era stato direttore Alberoni, ma non era stata una grande direzione, e prima di lui Pizzorno, ma nel periodo in cui pendolava con Oxford e gli stavano offrendo una cattedra ad Harvard, per cui non si era impegnato come ai tempi della Scuola di Sociologia. Quindi era un po’ frammentato: un ambiente molto vivace, ma in cui sostanzialmente ognuno faceva le cose per conto suo, non una vera comunità. A Trento ho svolto soprattutto attività didattica, in particolare nel dottorato, mentre l’attività di ricerca continuavo a farla a Milano, per mille motivi: abitavo a Milano, continuavo a essere presidente dell’Ires Lombardia, mi era più facile avere finanziamenti, e così via. Però a Trento nel 1989 avevo organizzato un grosso convegno internazionale (insieme a Guido Romagnoli, che purtroppo morì improvvisamente, quindi alla fine lo realizzai da solo), invitando molti stranieri che allora si occupavano di movimento operaio: Wolfgang Streeck, Jelle Visser, Michael Shalev, Richard Hyman, Colin Crouch, Horst Kern… Da questo convegno nacque poi il libro The Future of Labour Movements[20], uscito nel ’92. Lì decidemmo di fondare un Research committee dell’International Sociological Association, Labor movements, di cui io sono stato presidente dal ’90 fino al ’98, mi pare. Più o meno lo stesso periodo in cui ho fatto anche il coordinatore della sezione AIS-ELO…

REGINI@AIS-ELO2002@CAGLIARI

L’unico impegno istituzionale che mi presi a Trento fu quello di coordinare il dottorato, raccogliendo il testimone da Chiara Saraceno…

 Un impegno comunque non da poco, a parer mio, coordinare il primo vero dottorato italiano di sociologia…

 Sì, direi che da lì siete passati in tanti della più giovane generazione di sociologi: il primo ciclo che io ho coordinato è stato quello che ha visto come allievi Maurizio Pisati, Anna Lisa Tota, e altri, al quale sono seguiti quelli con Asher Colombo, Paolo Barbieri, Roberto Pedersini, Luigi Burroni, tu stesso e molti ancora … una grande esperienza. Però è stato l’unico incarico istituzionale che accettato a Trento: Pierangelo Schiera e altri mi avevano chiesto di fare il preside, ma io assolutamente mi rifiutai, dissi che non ero tagliato per impegni istituzionali.

regini 11Poi nel ’96 tornai a Milano e tre anni dopo decisi invece di assumerlo un grosso impegno istituzionale, diventando preside della facoltà di Scienze politiche! Mi sono chiesto tante volte cosa mi avesse fatto cambiare idea. I miei amici erano così sorpresi, ricordo che dicevano: “Marino è uno a cui sono sempre interessati i rapporti internazionali, chi glielo fa fare di diventare preside?”. Sicuramente c’è stata una specie di sfida con me stesso, del tipo: “Vabbè, ho fatto tutta la vita lo studioso: vediamo se sono capace anche di svolgere un ruolo più manageriale!”. Ma credo che il motivo principale sia stata la nascita della Bicocca l’anno precedente. Praticamente l’intero corso di laurea di Sociologia della Statale nel 1998 decise di trasferirsi in Bicocca: ma a me e ad Alberto Melucci, che eravamo rientrati da poco da Trento, sembrava di ritornare in periferia. Così dissi “No: voglio rimanere qua!”, così come fecero Melucci, Cella, Bianca Beccalli, oltre che l’allora preside Martinelli; quasi tutti gli altri sociologi però andarono in Bicocca. L’idea era che la nuova università non sarebbe stata simile alla Statale, ma che i due atenei si sarebbero differenziati e divisi le facoltà: in teoria, Economia, Sociologia e Scienze della formazione dovevano stare solo in Bicocca, mentre altre facoltà, come Giurisprudenza e Lettere, dovevano rimanere solo in Statale. Così, quando Martinelli finì il suo mandato e non poteva più essere rieletto, e mi venne proposto di diventare preside, la presi un po’ come una sfida. Avevo scelto di rimanere in Statale, però non volevo rimanerci isolato: volevo provare a ricostruire la sociologia nella mia università. Fui fortunato, perché allora era un periodo di risorse piuttosto abbondanti per il reclutamento docenti e, soprattutto, si poteva reclutare anche dall’esterno, cosa che però pochi presidi in Statale hanno fatto, perché tutti hanno cercato di promuovere gli interni. Io forse ho avuto il merito – se un merito ho avuto – di puntare molto su un reclutamento di qualità dall’esterno, resistendo alle pressioni per fare solo concorsi interni. E quindi ho utilizzato la gran parte delle risorse che avevo a disposizione per reclutare dall’esterno sociologi, oltre che politologi ed economisti. E, nonostante molte difficoltà, siamo riusciti a ricostruire la sociologia in Statale, gettando le basi del dipartimento che abbiamo oggi. Insomma, di questo periodo di impegno istituzionale, anche se ha portato ovviamente a un calo della mia attività scientifica, sono molto soddisfatto. Lo sono un po’ meno del mio impegno istituzionale successivo, quando dopo i sei anni da preside ho accettato di fare per sette anni il prorettore all’internazionalizzazione: nonostante il mio impegno e i miei sforzi, sono riuscito a cambiare molto meno di quanto non fossi riuscito invece a cambiare nella facoltà.

Sarà almeno servito come spunto di riflessione per le successive ricerche sull’università italiana…

Certamente! Nel decennio scorso, oltre a curare un manuale di sociologia economica[21] e a occuparmi ancora di patti sociali, di modello sociale europeo, e così via, mi resi conto che, svolgendo questi ruoli istituzionali, prima preside e poi prorettore, mi trovavo di fronte a dei meccanismi decisionali che andavano spiegati da uno scienziato sociale. In Italia pochi scienziati sociali si occupavano di università e sistemi universitari: Roberto Moscati, il politologo Giliberto Capano, qualche economista come Daniele Checchi. E quindi mi venne voglia di occuparmi di questo tema… Anche perché nel frattempo, diventando preside, avevo lasciato la presidenza dell’Ires Lombardia, che mi sembrava incompatibile con gli impegni istituzionali, quindi avevo perso i legami col sindacato e mi cominciavano a venire a noia i temi delle relazioni industriali. Così, nell’ultima fase della mia carriera ho cercato di lavorare da un lato sui sistemi di istruzione superiore e dall’altro di recuperare la dimensione macro di political economy che negli ultimi anni avevo trascurato. Per esempio, nel numero 100 di Stato e mercato ho scritto un articolo su capitalismo e crisi, che cerca di rileggere la letteratura di political economy degli ultimi 30 anni[22].

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