Bando Marie Curie – Global Fellowship: intervista a Valentina Goglio, vincitrice con il Progetto “MOOC_DaSI – Patterns of Diffusion and Social Implication of MOOCs”

Bando Marie Curie – Global Fellowship: intervista a Valentina Goglio, vincitrice con il Progetto “MOOC_DaSI – Patterns of Diffusion and Social Implication of MOOCs”

Ciao Valentina, ci descrivi il tuo percorso accademico e di ricerca? 

Mi sono laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università di Torino (erano ancora i tempi del vecchio ordinamento!). All’epoca non pensavo ancora che la ricerca sarebbe diventata il mio pane quotidiano o meglio, mi sarebbe piaciuto continuare il lavoro che avevo iniziato con la tesi di laurea, ma ‘fare ricerca’ mi sembrava ancora una strada astratta e molto impervia. Così per un po’ più di un anno ho continuato a lavorare nella associazione ecologista no-profit che con alcuni amici avevamo fondato. Nel frattempo però tenevo gli occhi aperti su eventuali bandi in università e così a gennaio 2007 ho vinto il mio primo assegno di ricerca presso il Dipartimento di Economia all’Università di Torino. Il progetto era sulle sedi universitarie decentrate e lo sviluppo locale. Da quel momento ho iniziato a studiare le università, il rapporto con il territorio e le implicazioni in termini di accesso all’istruzione e di ritorni sul mercato del lavoro, iniziando allora la lunga collaborazione con Sonia Bertolini che si protrae fino ad oggi. Ho quindi capito che fare ricerca sui temi dell’istruzione e del mercato del lavoro era quello che volevo fare, per cui nell’ottobre 2009 ho cominciato il dottorato in Studi del Lavoro all’Università Statale di Milano. L’idea della tesi di dottorato è quindi nata a partire da questi interessi di ricerca a cui si sono aggiunti gli interessi di ricerca di Gabriele Ballarino, relatore della tesi. Nella tesi ho studiato il sistema universitario italiano con un approccio longitudinale volto a comprendere le trasformazioni avvenute sul piano istituzionale ed organizzativo ed i fattori determinanti nella apertura di nuove sedi università e campus decentrati. Proprio durante il dottorato ho avuto la possibilità di fare il mio primo periodo di visiting di 6 mesi presso l’Università di Stanford che mi ospita in questo momento. È stato un momento fondamentale perché mi ha dato la possibilità di aprire nuovi contatti e nuove collaborazioni, oltre ad aver ulteriormente rinforzato il mio interesse per la ricerca comparata. Dopo il dottorato ho avuto la possibilità di lavorare con Marino Regini in un progetto europeo comparato sulla governance delle università. Successivamente mi sono spostata a Ispra (VA) dove ho lavorato per due anni nel Joint Research Center della Commissione Europea (ancora poco conosciuto per le scienze sociali). Qui ho continuato ad occuparmi di istruzione, skills e opportunità occupazionali dei giovani europei con un orientamento molto applicato alle esigenze di policy della Commissione. Si è trattato di un’esperienza molto importante, anche in riferimento alla scrittura del progetto, come vedremo più avanti. Tuttavia, sebbene si trattasse di un’esperienza senza pari dal punto di vista delle condizioni di lavoro (per la prima volta nella mia carriera ero inquadrata con un vero contratto di lavoro da ricercatore legato agli standard europei, che prevedeva retribuzione, tutele e infrastrutture adeguate a svolgere quello che è un reale lavoro e che in Italia stenta ad essere riconosciuto) mi mancavano gli stimoli della ricerca accademica. Per cui nel 2015 sono tornata all’Università di Torino con un assegno di ricerca legato ad un progetto finanziato da H2020 (“Except”), coordinato da Sonia Bertolini. In questi due anni mi sono quindi occupata della condizione occupazionale dei giovani in Europa e come questa impatti sui loro percorsi di transizione all’autonomia, soprattutto abitativa ed economica. Infine, da settembre 2017 mi trovo negli Stati Uniti all’Università di Stanford per il primo anno della Global Fellowship.

Ora quali sono i tuoi principali interessi di ricerca?

I miei interessi di ricerca sono sempre ruotati intorno ai temi dell’istruzione terziaria (higher education) e del mercato del lavoro in una prospettiva comparata. In particolare, ho studiato l’organizzazione ed il funzionamento dei sistemi universitari ponendolo in relazione al mercato del lavoro ed alle traiettorie occupazionali dei giovani.

Come si chiama il tuo progetto? l’acronimo ha un significato particolare per te?

Il progetto si chiama MOOC_DaSI e nasce semplicemente dalle iniziali del titolo, che è “Patterns of Diffusion and Social Implication of MOOCs”. All’epoca della scrittura del progetto l’acronimo era l’ultima delle mie preoccupazioni, ero totalmente concentrata sul progetto stesso e questo aspetto mi sembrava secondario (e invece non lo è affatto). Inoltre volevo che la parola MOOC fosse in primo piano, in modo da dare immediatamente l’idea del campo di studio del progetto.

Con il senno di poi mi sento di consigliare di dare subito la dovuta attenzione all’acronimo, visto che si potrebbe anche finire per vincere e non c’è più la possibilità di cambiare (l’ho chiesto, confesso, ma mi hanno detto che non è possibile).

Qual è il tema del progetto che ti ha fatto vincere il bando?

Il progetto si occupa di studiare da un lato l’impatto che i Massive Open Online Courses (MOOCs) hanno avuto a livello macro sull’organizzazione dei sistemi di higher education negli Stati Uniti (dove tutto è cominciato) ed in Europa. Dall’altro lato si occupa di studiare i benefici e le sfide che questi hanno generato a livello micro sulle opportunità professionali e personali dei learners, ossia delle persone che si sono iscritte a questo tipo di corsi. I MOOCs sono corsi gratuiti, aperti e offerti a un gran numero di utenti, generalmente forniti da università di élite attraverso alcune piattaforme digitali come Coursera, EdX o FutureLearn, per citare le più famose. I MOOCs hanno goduto di una grandissima attenzione mediatica intorno al 2012 e sono spesso stati presentati dai loro sostenitori come la ricetta perfetta per risolvere i problemi di accesso all’istruzione. La realtà dei fatti ha poi spesso smentito questa versione, ma la ricerca empirica è ancora limitata e discordante.

Il tema quindi è attuale e di grande interesse anche per la Commissione Europea, che ha investito molto sulle Open Educational Resources e non da ultimo, ha finanziato direttamente alcune piattaforme europee per la condivisione dei MOOCs. Questo credo sia uno dei fattori chiave che ha fatto vincere il progetto. Inoltre, ci sono i temi dell’accesso all’istruzione e della qualificazione della forza lavoro, che sono centrali nell’ottica della “smart and sustainable growth” le parole chiave della Strategia Europe 2020. Non da ultimo, credo sia stato valutato molto positivamente l’approccio mixed-method, che integra i dati quantitativi disponibili (che per quanto riguarda i MOOCs sono abbondanti in quantità ma poveri in qualità) con materiale qualitativo volto ad approfondire gli aspetti ed i meccanismi più complessi.

Come mai hai scelto il bando MarieCurie con la Global Fellowships?

Ho scelto di partecipare a una Global Fellowship perché mi permetteva di andare a studiare il fenomeno proprio là dove tutto è nato e dove continua a trasformarsi vorticosamente, ossia Stanford University e la Silicon Valley in generale. La maggior parte dei MOOCs lanciati negli anni 2011-12 erano infatti realizzati da professori di Stanford, alcuni dei quali hanno poi fondato start-ups che ormai sono multinazionali come Coursera o Udacity.

In generale, tenevo sott’occhio le Marie Curie Fellowship già dalla fine del dottorato perché le ho sempre viste come un’ottima (e rara) occasione ‘bottom up’ per perseguire i propri interessi di ricerca, in un contesto di scarsissime opportunità come quello italiano. Inoltre, dopo quella prima esperienza di visiting nel 2011/2012, ho sempre desiderato tornare alla Stanford University. La Global Fellowship quindi mi ha permesso di combinare la voglia di mettermi alla prova con un mio progetto di ricerca, di tornare a Stanford e di ottenere condizioni di lavoro allineate agli standard europei (per la prima volta posso finalmente disporre di fondi di ricerca personali!).

Quanto tempo hai impiegato per la scrittura del progetto? che consigli hai in merito alla gestione del tempo e delle fasi di scrittura del progetto?

Nel mio caso ci sono stati due round: non ho vinto al primo tentativo nel 2015, ma ho nuovamente sottoposto il progetto alla seconda call, nel 2016, che è poi andata a buon fine. E qui mi sento davvero di dare un consiglio a chi sta pensando di partecipare: preparate la proposta al meglio ma non preoccupatevi di un eventuale ‘fallimento’, fa parte del gioco, la si deve mettere in conto. Io personalmente non mi sono affatto stupita della prima rejection, si tratta di borse molto prestigiose, si compete con un gran numero di candidati da tutta Europa e tutti preparatissimi. Nel settore delle Scienze Sociali è stato finanziato il 14% delle proposte, per cui la selezione si gioca su progetti tutti di alto livello. La cosa che ho trovato molto positiva è che il processo di review è scrupoloso e formalizzato, per cui si riceve un evaluation summary estremamente dettagliato che mette in luce i punti di forza e quelli di debolezza. Io l’ho percepito come un ‘revise and resubmit’ di un articolo. Per cui, dopo giusto un paio di giorni in cui ho ammortizzato il colpo, mi sono messa in contatto con i miei due supervisors (la Global Fellowship ne prevede due) e con il CSTF dell’Università di Torino (che mi ha aiutato moltissimo nella preparazione della bozza) e tutti unanimi abbiamo detto “riproviamoci”.

Così ho mantenuto l’idea progettuale e lo schema generale del progetto e sono intervenuta a migliorare i punti che invece avevano segnalato come deboli. E la seconda volta, nel 2016, il progetto è stato finalmente ammesso al finanziamento con un buon punteggio!

Quindi, faccio un po’ fatica a quantificare il tempo totale impiegato. Credo che il tempo effettivo di scrittura sia stato di un mese a tempo pieno, magari anche 5-6 settimane. Ma di fatto è stato un processo di gestazione molto più lungo, l’idea base l’avevo forse elaborata un anno prima, poi ne ho discusso ampiamente con quelli che sono ora i miei supervisor e che all’epoca erano miei co-autori su altri progetti. Si tratta di Sonia Bertolini e Paolo Parigi che ringrazio per la fiducia e il supporto che mi hanno sempre dimostrato. Per cui direi che il processo intero prende molto più tempo, anche un anno. Questo anche perché la costruzione del network richiede inevitabilmente del tempo. Le Marie Curie Fellowship non richiedono un grande consorzio come nel caso dei progetti H2020, però comunque si tratta di svolgere ricerca in due istituzioni diverse: è necessario prendere contatti, valutare le modalità e già nel progetto dettagliare molto chiaramente ruoli, risorse e fasi dell’implementazione. Questa quindi è forse la parte che richiede più tempo.

Avevi esperienza pregressa nella scrittura di questo o di altri bandi simili? Se si, ti è stata d’aiuto per conseguire il risultato?

No, non avevo esperienza di scrittura per altri bandi europei. Però credo che l’aver lavorato per il Joint Research Center della Commissione Europea mi abbia aiutato moltissimo. Infatti, l’esperienza maturata sul campo della ricerca policy-oriented ed anche nella interazione con i funzionari della Commissione Europea mi abbia insegnato a capire le priorità, le logiche e le procedure dell’organizzazione. Quindi, quando mi sono messa a scrivere il progetto ho cercato di sforzarmi di integrare l’approccio accademico con la logica politico-amministrativa della Commissione, e credo che questo sia stato un punto di forza. La struttura del bando infatti, richiede di scrivere pochissime pagine (10) di cui solo 2-3 sono legate alla parte scientifica del progetto, tutto il resto è legato a impatto, implementazione, ritorni della ricerca e così via. E devo ammettere che quella è stata proprio la parte più difficile.

Ritieni che sia importante discutere del progetto e avere opinioni in merito da colleghi?

Sì assolutamente, credo profondamente nel fatto che la ricerca sia un processo collaborativo e non esclusivo. Per orientamento personale ma anche grazie all’esperienza professionale maturata credo davvero che i migliori risultati si ottengano solo attraverso un processo di collaborazione trasparente e costruttivo, nel quale ognuno dà il proprio contributo per un comune risultato. Certamente, bisogna scegliere le persone giuste. Quindi sì, nel mio caso è stato molto utile parlarne prima di tutto con quelli che ora sono i miei supervisors, ma anche con colleghe e colleghi al Joint Research Center e all’Università di Milano. Inoltre, ho avuto un grande supporto dal CSTF dell’Università di Torino.

Hai avuto supporto di natura tecnica, ad esempio da uffici appositi dell’università, oppure da Agenzie come l’APRE (o simili)? 

Sì, ricollegandomi a quello che ho detto prima, è stato fondamentale l’aiuto del CSTF per la scrittura effettiva del progetto. Ci sono infatti parti ‘tecniche’ non accademiche che se non si ha esperienza di questi bandi non si capisce davvero dove vogliano andare a parare. E la sezione ‘Implementazione’ per me era difficilissima: dover programmare le attività mese per mese a due anni di distanza per me all’epoca era fantascienza. La collaborazione con il CSTF (Common Strategic Task Force) di UNITO è stata davvero positiva: abbiamo avuto un primo incontro generale in cui ho spiegato la struttura del progetto e loro mi hanno dato alcune indicazioni. Mi hanno poi dato alcuni ‘fac-simile’ a cui ispirarmi e il contatto di altri vincitori Marie Curie Fellowships. Quando poi ho cominciato a scrivere il progetto ci siamo scambiati diverse email e loro sono intervenuti con commenti molto puntuali e utili a individuare incongruenze o debolezze.

Sono molto grata anche ad una mia collega, Esperanza Vera, che mi ha messa in contatto con una sua studentessa vincitrice di una Marie Curie e a Marcello Natalicchio, altro vincitore MC, che mi hanno dato la possibilità di leggere la loro proposta. Questi sono stati passaggi fondamentali perché la struttura del progetto è completamente diversa rispetto allo stile accademico a cui siamo abituati, e vedere nella pratica su cosa è bene concentrarsi e cosa invece può essere tralasciato è davvero importante.

Puoi darci qualche consiglio sugli aspetti che, a tuo avviso, è più rilevante mettere in evidenza nel progetto?

In linea generale consiglio di avere le idee chiare fin da subito ed essere davvero precisi e dettagliati negli obiettivi e nelle domande di ricerca. Infatti, uno degli elementi che erano stati valutati negativamente nella mia prima application era stata una certa approssimazione degli obiettivi, che pensavo di poter dettagliare poi in corso d’opera.

Inoltre, consiglio di non sottovalutare la parte di ‘Impact’ e ‘Implementation’ che forse per noi accademici non è così immediata da prevedere (almeno per me, è stata la parte più difficile). Ad esempio, bisogna definire già che database si intende usare, il numero di interviste, il nome delle conferenze e delle riviste a cui si presenteranno i risultati, prevedere i rischi etc….

Bisogna anche esplicitare chiaramente quali sono i ritorni della ricerca per la società (quindi grande attenzione alle implicazioni di policy) ma anche per la disciplina e per il ricercatore stesso (ad esempio a che punto della carriera si colloca questo progetto e come il ricercatore ne beneficerà in termini pratici: 1 libro, un concorso da ricercatore, la creazione di un laboratorio, etc…).

Per cambiare argomento: come l’ambiente universitario negli States? Quali sono le principali differenze con il nostro mondo accademico? 

Il sistema universitario americano è profondamente differenziato, e non posso parlare per tutto il sistema, posso solo portare la mia esperienza in una università privata di élite come Stanford.

In realtà la mia attuale condizione di visiting postdoc non mi ha dato la possibilità di integrarmi proprio del tutto nell’organizzazione, nel bene e nel male. Quindi sono molto contenta di svolgere il mio lavoro in autonomia con il mio supervisor e di godere di un mio ufficio personale. Dall’altro lato però non è facilissimo interagire con gli altri ricercatori o faculty members, pur partecipando a seminari, workshop e anche alle attività sociali. Posso quindi solo dare una visione parziale del sistema.

In linea generale, da italiana, sono davvero impressionata dalla quantità di risorse e infrastrutture per la ricerca che hanno, ma non solo, anche da quanto tutto ‘funzioni’. Hanno infatti molte risorse ma è anche molto facile utilizzarle: l’apparato amministrativo è snello ed è davvero al servizio della ricerca. Inoltre, dal punto di vista scientifico qui si trovano tutti i grandi maestri: gli autori che ho studiato per anni e che ho sempre visto citati fra due parentesi, qui sono in carne e ossa ed è davvero facile avvicinarli. I seminari sono di piccole dimensioni, il clima è informale e rispettoso. Viene ascoltata l’opinione di tutti, anche del dottorando più giovane con grande rispetto. Dall’altro lato c’è anche molta competizione. In generale la società americana è basata sul mercato e la competizione e l’ambiente accademico non è da meno, c’è una grande pressione ad ogni livello. E purtroppo è un po’ la direzione che si sta prendendo anche in Italia per le posizioni non strutturate, visti i ridottissimi investimenti nell’Università. La differenza è che qui a Stanford si compete per posizioni prestigiose e fondi consistenti, mentre in Italia si compete spesso per posizioni subalterne e dalle ridottissime risorse.

Hai dei suggerimenti pratici per tutti i colleghi che decidono di andare a fare un’esperienza fuori? Grazie per il tempo che ci hai dedicato!

Se mai ce ne fosse ancora bisogno consiglio sicuramente a tutti coloro che ne hanno la possibilità di cogliere l’occasione, qualunque essa sia, di svolgere un periodo all’estero. Soprattutto a dottorandi/e, per me è stato un momento di svolta fondamentale. È altamente formativo dal punto di vista professionale, sia per ragioni tecniche (si imparano nuove ‘cose’) sia di networking, perché si creano delle reti che poi torneranno utili nel corso di tutta la carriera. Ma lo consiglio anche dal punto di vista personale: apre la mente, obbliga ad uscire dagli schemi consolidati e a rimettersi in gioco. Per quanto riguarda gli aspetti pratici non saprei, ogni paese ha le sue regole di immigrazione e ogni università le proprie regole di visiting. In linea generale mi sento di raccomandare di non chiudersi in biblioteca a fare la propria ricerchina ma di iscriversi a tutti i seminari, workshop, talk e tutto quello che viene offerto, per sfruttare appieno le possibilità che il luogo ha da offrire.

Grazie per il tempo che ci hai dedicato!

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