#4/2022 – MIMMO CARRIERI con Andrea Ciarini e Luisa De Vita

In questa intervista Mimmo Carrieri ripercorre con Andrea Ciarini e Luisa De Vita la sua biografia personale e di ricerca: dagli importanti incontri con Gino Giugni, Massimo Paci e Bruno Manghi, fino alle successive esperienze di ricerca in numerose università italiane, cui si affianca una ricca attività istituzionale. Lungo l’intervista emerge la passione per la ricerca sul mondo del lavoro declinata su più fronti: quello delle relazioni industriali, intanto, ma anche quelli della sociologia del lavoro e del diritto del lavoro. L’incontro si chiude con un invito rivolto ai giovani sociologi a riscoprire temi e prospettive teoriche di ampio respiro in un panorama profondamente cambiato per la disciplina.

Caro Mimmo, partiamo dall’inizio, dal tuo percorso formativo, dalla laurea all’Università di Bari con Gino Giugni. Ti sei laureato in giurisprudenza con una tesi in diritto del lavoro, come hai incontrato la sociologia, quali sono i temi a cui ti sei interessato fin da subito?  

Sì, debbo fare uno sforzo per ricordare alcuni passaggi, però la curiosità verso le scienze sociali, la sociologia, sono maturate appieno mentre ero studente universitario. Nel periodo precedente, non credo di aver mai sentito parlare di elaborazioni sociologiche. Sono maturate perché, avendo scelto di fare il corso di giurisprudenza, mi ero accorto dopo un po’ che non corrispondeva ai miei reali interessi. Mi trovavo in una fase della mia vita segnata da grande investimento nella partecipazione politica, che ad un certo punto si è concretizzata con l’adesione al PCI. Inoltre, ero stato eletto nel ’75 rappresentante degli studenti nel consiglio di facoltà: questa esperienza, di carattere “politico”, mi aveva aiutato a capire che in realtà non avevo nessuna passione o reale inclinazione verso gli studi giuridici. Non esisteva, però, all’epoca a Bari né una grande scuola sociologica e ovviamente neanche un corso di laurea sociologico. Ci fu però una svolta che, ad un certo punto, mi consentì di trovare delle sponde, che furono appunto uno stimolo ad arricchire la mia formazione, che in quel periodo si alimentava molto dell’identificazione con quello che era il mainstream culturale barese, identificabile con la scuola di marxisti revisionisti che era stata ispirata da Beppe Vacca. Era una scuola sicuramente stimolante e dotata di un orientamento critico e tutt’altro che adattivo, che però non aveva nessun interesse verso la dimensione empirica o di misurazione fattuale dei suoi argomenti. Ed io, pur identificandomi largamente con questa trama politica, ne vedevo (inizialmente in modo timido) anche i limiti, che erano parzialmente coperti, ma non completamente, dalla figura più importante che è stata anche il mio ponte con l’idea di diventare sociologo, cioè Franco Cassano. Franco, purtroppo scomparso qualche anno fa, è stato un sociologo molto sui generis, in realtà, era piuttosto un teorico della politica (e dopo si è occupato finemente di vari oggetti). Sicuramente a lui debbo molti stimoli e lo stile di una curiosità inesausta, il fatto di avermi fatto sentire vicino al discorso sociologico. Ma, un personaggio che stimolò la nascita di un nucleo sociologico significativo in quella realtà fu Franco Rositi, che arrivò a Bari, credo, nel ’73/’74 e che costruì subito una piccola scuola, ma soprattutto mostrò di essere dentro un circuito nazionale più ampio, organizzando una serie di eventi che per me furono catartici. È infatti in queste occasioni che ho avuto occasione di ascoltare due persone che poi sono state per me importanti: una è Massimo Paci, che venne a discutere il suo libro su “Mercato, Lavoro e Classi sociali”, che costituì per me la scoperta di tutto un indirizzo possibile di studi e che mi aprì un orizzonte, il quale io, fino a quel momento, avevo poco considerato dal punto di vista degli approfondimenti scientifici. E venne anche, ma questo già successivamente, a presentare il suo libro “Declinare Crescendo” Bruno Manghi, che mi aiutò nella conferma di uno degli assi costitutivi dei miei interessi, che già in quella fase si andavano concentrando intorno al fenomeno sindacale. Avendo fatto in quel periodo diverse letture formative e su questa base mi ero convinto, che, in quel momento, il sindacato fosse il soggetto più interessante sul piano sociale e, quindi, più interessante da studiare. Mentre ero alla ricerca di un oggetto più preciso di studio e anche di una metodologia scientifica più definita, ho attraversato quella che si può considerare una lettura fondativa di questa mia fase di formazione: “Gli anni ’50 in fabbrica” di Accornero, che per me fu una sorta di rivelazione. Ovviamente non conoscevo all’epoca Accornero di persona, parliamo di metà anni ’70. Però, mi sono rapidamente identificato col (suo) metodo, che era un metodo, appunto, rigoroso e scientifico e con la capacità di guardare in modo coinvolgente questo oggetto, il lavoro e il sindacato, il quale era un oggetto, diciamo, non immediato, anzi largamente polemico verso l’immediato. Ad esempio, Accornero era sempre stato poco tenero verso l’esperienza del ’69 dei consigli di fabbrica, che aveva complessivamente giudicato troppo generalista, parlava – non a torto – di titanismo rivendicativo. E questa scoperta mi indirizzò nelle prime due direzioni vere in cui si caratterizzò il mio percorso successivo. Prima ancora della laurea, io avevo vinto una borsa di studi del CESES, che era un centro di studi diretto da Renato Mieli (padre di Paolo e figura molto importante nel Pci fino al ’56).  Io riuscii ad ottenere una delle borse in palio e scelsi, visto che era una borsa legata al Mezzogiorno, di occuparmi del tema dei consigli di fabbrica e della loro diffusione nel sud. Questa si rivelò come un’esperienza di grande impatto, perché, intanto, mi dovetti porre il problema di trovare i dati e, quindi, per la prima volta mi misurai con un aspetto importante di ricerca. Così venni a Roma, andai in Cgil e in Cisl e in giro alla ricerca di informazioni. E dovetti anche fare i conti col fatto che questi dati erano pochi e frammentari, nella sostanza insufficienti. Scelsi poi di fare la tesi di laurea sul tema della partecipazione dei lavoratori in Costituzione, perché mi era sembrato il tema più prossimo dal punto di vista dei miei interessi, in modo tale da consentire di laurearmi, avendo scelto di non abbandonare giurisprudenza, ma nello stesso tempo di avvicinarmi alle tematiche sociologiche e agli interrogativi con cui facevo i conti. Diremmo adesso che si trattava di una tesi in Relazioni industriali. In realtà, non esisteva un insegnamento di Relazioni industriali. Il relatore era Giugni, che fu molto interessato alla mia elaborazione e si deve comunque a Giugni l’istituzione a Bari di un insegnamento di Sociologia del Lavoro.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è sddefault-edited.jpg

Ci descrivi meglio quale era il clima in cui sei stato stimolato a continuare ad occuparti di relazioni industriali?

Intanto, prosperava una collana di De Donato che era esemplare e che si chiamava “Movimento operaio”, diretta da Accornero, Cella e Giugni: quindi, rappresentava una ottima sintesi delle diverse anime che si riconoscevano in   questo universo conoscitivo. Uscirono in quell’ambito tanti libri importanti, tra cui “Il sindacato tra contratti e riforme” di Giugni. Io stesso poi ho scritto, ad un certo punto nei primi anni ’80, uno dei miei primi articoli che venne pubblicato in uno di questi volumi che si chiamava “Il sindacato nella Recessione” e c’erano i saggi dell’esperienza eretica della FIM, di Cella e Manghi.  Ed anche tante altre cose che per me hanno rappresentato un importante itinerario conoscitivo. Nello stesso periodo, avevo scoperto e avevo subito sviluppato un interesse proprio verso i classici della sociologia del lavoro, che venivano pubblicati in quel periodo da Franco Angeli. C’era una collana dove sono usciti tanti libri, variamente importanti, sicuramente i libri di Touraine e le sue prime ricerche, alcuni degli studi di Michel Crozier, la ricerca di Goldthorpe sull’operaio opulento, tutta la letteratura nordamericana, ma anche europea, sull’alienazione, oltre che su altri fenomeni legati ai cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. Insomma, dal mio punto di vista la sociologia cresceva come scienza fondamentale per spiegare quello che succedeva nella realtà sociale e nel mondo della produzione.

Ma poi Mimmo, quand’è che decidi di trasferirti a Roma e perché?

In quel periodo mi viene offerto da Giuseppe (Peppino) Cotturri, che era il Direttore del Centro per la Riforma dello Stato (CRS) di Ingrao di andare a lavorare per un periodo di prova, poi fui assunto dopo qualche tempo. Questa offerta mi sembrò una grande opportunità, in primo luogo perché era un’esperienza in sintonia con le mie aspettative politiche, poi perché mi apriva un universo di conoscenze e di rapporti che in effetti è risultato importante nelle mie esperienze successive. Io però scelsi subito sin dall’inizio di continuare ad occuparmi di sindacato e relazioni industriali e in questo senso ebbi alcune fortune e qualche sfortuna. La principale fortuna è che in quel momento stava decollando il dibattito delle scienze sociali sul neocorporativismo (il decollo delle politiche di concertazione e regolazione triangolare). E questo dibattito, diversamente da quello che succedeva in altri paesi, dove era stata una discussione solo scientifica e riservata agli addetti ai lavori, in Italia, in realtà, si allargò anche ad organizzazioni politiche e sindacali. Divenne centrale l’interrogativo su come in Italia era possibile riuscire a costruire assetti modellati sul prototipo neocorporativo utilizzato nei paesi scandinavi per fronteggiare la stagflazione.  Questa opzione fu radicalizzata dal cambio di passo che la Cisl diede al suo posizionamento strategico con il Congresso dei primi anni ’80, in cui adottò come formula di riferimento quella dello “scambio politico”. Credo che sia un prodotto unico nella storia, diciamo, della cultura delle idee, il fatto che un paradigma sociologico, un paradigma che io negli anni precedenti avevo imparato a maneggiare – avendo letto Pizzorno, sia il lungo ciclo “Lotte operaie e sindacato” con il suo volume conclusivo che apriva grandi squarci interpretativi, sia “I soggetti del pluralismo” in cui raccoglieva gli studi sui sindacati, sui partiti con la sua angolatura originale, sia il volume curato con Crouch “Conflitti in Europa”- si materializzasse, diventando il retrobottega degli accordi di concertazione e dello scambio politico in Italia. E, diciamo, ci fu questo miracoloso connubio tra organizzazioni e dibattito scientifico, che in Italia durò alcuni anni e che si deve largamente alla attività del gruppo di studiosi che ruotava intorno a Guido Baglioni (cui guardava con interesse anche Accornero). Il mio rapporto con il gruppo di Baglioni, oltre a Baglioni stesso in quegli anni, si è poi allargato a tantissime persone, che ho molto apprezzato: non posso non ricordare Lorenzo Bordogna, scomparso recentemente in modo prematuro, Gian Primo Cella, Beppe Della Rocca, in seguito Anna Ponzellini, e diversi altri, non solo sociologi, come Tiziano Treu, Carlo Dell’Aringa, Mario Napoli e Guido Romagnoli.

Con loro ho avuto la possibilità di partecipare ad alcune ricerche intorno a metà degli anni ’80, promosse dal Cesos, il Centro Studi della Cisl presieduto da Baglioni, l’equivalente dell’Ires (in particolare la ricerca che si concretizzò nel “Gioco negoziale”, il volume curato da Giancarlo Provasi). Così si avvio un rapporto che progressivamente mi arricchì sul versante della conoscenza sociologica e delle relazioni industriali.

Nel Crs, per diversi anni, ho curato, insieme a Mario Telò, l’analisi dei cambiamenti nella sinistra europea e nei grandi soggetti collettivi. Alimentammo una lunga fase di analisi e di pubblicazioni.

In particolare, un lungo ciclo relativo alla conoscenza delle diverse opzioni per i sindacati europei intorno all’asse del neocorporativismo. Intorno a questo asse è nato e si è consolidato il mio legame con quelli che erano gli interpreti italiani più importanti e già molto maturi dal punto di vista scientifico di questo filone, che erano Ida Regalia, Marino Regini e naturalmente Gian Primo Cella. In questa fase c’era questo grande imprinting di una conoscenza comparata dell’evoluzione di fenomeni, all’interno dei quali le relazioni industriali sembravano caratterizzarsi come l’asse centrale della regolazione socioeconomica. Questo era il cuore interpretativo e questa cooperazione per diversi anni noi la trasferimmo anche nell’analisi dei partiti della sinistra europea. Il nostro obiettivo era di dimostrare la vicinanza del PCI, con cui eravamo in raccordo, agli esempi migliori, organizzativi, culturali e di politiche della sinistra europea. Insomma, una grande attività conoscitiva che in qualche modo era una scuola non dichiarata di political-economy comparata. In questi anni cominciai a elaborare, prima alcuni saggi, poi cose anche più impegnative su questi temi. In realtà, la prima cosa che ho scritto fu la rassegna proprio sui temi del neocorporativismo, che uscì in un volume sulla riforma del partito politico, curato per De Donato da Leonardo Paggi (uno storico). Incominciai poi ad introdurre, dentro questa cornice, alcuni elementi critici, che ho sviluppato nel periodo successivo insieme a Carlo Donolo. Scrivemmo un libro (1986) che si chiamava “Il mestiere politico del sindacato”, per ribadire, tra le altre cose e in polemica con alcune delle tesi che allora circolavano all’interno della sinistra, che il sindacato doveva continuare a svolgere un’azione di tipo generale e verso le istituzioni.

Questo ciclo neocorporativo si interrompe un po’ drammaticamente nell”84 con lo scontro, che porta alla fine della federazione in Italia tra Cgil, Cisl e Uil, relativo al taglio dei punti della scala mobile. Era il momento in cui l’orizzonte neocorporativo sembrava più vicino. L’anno precedente era stato sottoscritto il primo accordo triangolare italiano, l’accordo Scotti, che non aveva prodotto significative tensioni. Non accadde così l’anno successivo con Craxi come Presidente del Consiglio. Lo scontro che prese corpo in quell’occasione determinò la rottura politica che condusse successivamente al referendum promosso polemicamente dal Pci e anche alla rottura tra i sindacati (che pose fine appunto alla Federazione sindacale Unitaria). Questo allontanò, per una lunga fase, la possibilità di arrivare ad accordi di tipo concertativo, oscurando questo tema che nei 5/6 anni precedenti era stato dominante e pervasivo.

Nello stesso periodo, avevo cominciato a collaborare con l’IRES (l’Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil, fondato pochi anni prima da Amato e Trentin). È stato un bellissimo periodo durato 4/5 anni, in cui ho allargato anche qui le mie conoscenze e in cui ho cominciato a osservare più da vicino l’organizzazione sindacale. Durante questo periodo c’è stato un prodotto importante, che è stato il mio primo libro con il Mulino, in cui sono stato co-curatore insieme a Paolo Perulli e che si intitola il “Teorema sindacale”, nel quale c’erano diversi studi significativi. C’era un bellissimo saggio di Regini. E soprattutto pubblicammo il primo saggio, dovuto a Wofgang Streeck, in cui si sosteneva la tesi del passaggio alla flessibilità del lavoro come nuovo paradigma organizzativo delle imprese. Il libro uscì nell”85 e può essere considerato come uno spartiacque rispetto alla fase precedente, dove prevalevano ancora i modelli di derivazione fordista: incominciava ad aprirsi una fase che è quella che poi ha portato ai vari profili classificatori di tipo post-fordista. Sono gli anni in cui esce anche il libro, frutto però di una vasta ricerca, di cui già si conoscevano alcuni pezzi, di Trigilia su “Grandi partiti e piccole imprese”, si assiste allo sviluppo della discussione sulla terza Italia a partire dall’importante libro di Bagnasco. Quindi, tutti questi fili in qualche modo si intersecavano.

Ecco, per te Mimmo, che cosa ha significato essere uno studioso, un ricercatore, ma anche una persona vicina e direttamente coinvolta in una grande organizzazione collettiva?

Militante lo sono sempre stato, non tanto in termini di partecipazione alla vita di gruppo di sezioni (dopo l’intenso periodo barese) o che so io, ma ho sempre pensato in quegli anni e anche dopo, che le grandi organizzazioni fossero un soggetto centrale nella vita collettiva, ma anche un soggetto da studiare e anche uno dei possibili fattori di promozione delle attività di ricerca sociale. E infatti, una parte della mia ricerca, prima più orientata su modelli teorici e poi successivamente anche attraverso strumenti di ricerca sul campo empirici e quantitativi, la debbo a questa disponibilità delle strutture sindacali e anche in alcuni momenti del partito. Ora, quando io ero al CRS, in realtà, noi non facevamo ricerca empirica. Anche perchè la ricerca empirica, sia sul partito che sul sindacato in realtà, per uno lungo periodo, veniva realizzata dal CESPE (il Centro Studi di politica economica, sempre promosso dal Pci) ed era gestita da Accornero, che era il direttore della sezione di Ricerca Sociale. Io in quegli anni ho avuto la possibilità di incontrare Accornero, che con grande gentilezza, commentava le cose che scrivevo ed era molto attento a quello che si agitava nella discussione in materia di sindacato e relazioni industriali. Ma c’era, però, un aspetto che inibiva un rapporto più strutturato con Accornero e cioè il fatto che appartenevamo a due pezzi della stessa famiglia politica, che però erano pezzi che facevano fatica a comunicare tra di loro, in quanto erano in competizione e soprattutto si collocavano su posizioni spesso distanti. Accornero stava facendo in quel momento, mi ricordo, la ricerca sull’identità comunista a partire dai dati dei partecipanti ai congressi del PCI, che uscì in un volumone degli Editori Riuniti, credo insieme a Chiara Sebastiani e poi stava elaborando i dati di un’altra ricerca consistente (ricerca di “massa”)  che poi ebbe un grande eco,  dopo la famosa vicenda Fiat dell”80, che riguardava proprio gli operai Fiat , ricerca dalla quale Aris ricavò i famosi “tre tipi” di operaio Fiat, di cui il principale non era l’operaio conflittuale, ma l’operaio cooperativo. Questa ricerca avviò sicuramente una rottura sia nel modo in cui molti di noi leggevano gli accadimenti sociali e i fenomeni conflittuali di quel periodo, sia anche nelle categorie con cui i sociologi si accostavano a questo oggetto.

Nella seconda metà degli anni ’80, cominciai a collaborare attivamente con la formazione sindacale e a fare le mie prime lezioni alla scuola nazionale di Ariccia (successivamente abbandonata). È da questa attività che ho imparato (spero) ad insegnare, ed è stata un’esperienza molto importante, perché implicava una idea di educazione degli adulti (in questo caso sindacalisti), i quali conoscevano alcune cose, molto spesso non avevano alti livelli di scolarità, avevano una cultura frammentaria, forte su alcuni aspetti, debole su altri. Quindi, ciò mi spingeva in queste mie lezioni a cercare, per quanto possibile, di calarmi vicino a loro e cercare anche sul piano lessicale, la capacità di comunicazione e di interlocuzione secondo modalità più semplici e più chiare. E ritengo che tutto questo mi abbia poi aiutato, quando successivamente ho cominciato a fare attività e lezioni più propriamente nella sfera accademica. Quindi, attribuisco a queste esperienze un bagaglio formativo molto importante.

Come sei ritornato poi dentro l’accademia?

Intanto, primo passaggio è che io avevo cominciato a pubblicare anche un paio di libri, non monografie da solo, ma insomma un paio di libri. Avevo curato un bellissimo libro secondo me di Peter Lange, sul sindacato in Francia e in Italia (con Ross e Vannicelli), dal cui modello interpretativo avevo compreso tante cose, che poi mi sono state utili anche nelle analisi degli sviluppi successivi.  Nel frattempo, ero diventato redattore della rivista del CRS che era Democrazia e Diritto e poi capo redattore. Avevo pubblicato diversi articoli, direi non su riviste sociologiche: un saggio adesso molto citato di scienza politica sul gruppo dirigente del PCI (prima della svolta di Occhetto) ed anche un saggio a cavallo tra il sociologico e il politologico sull’annale Einaudi sulla Puglia, sul ceto politico pugliese, che si titolava “L’innovazione imperfetta” e che non era privo di spunti. Per questa via ho deciso di partecipare al bando pubblico per ottenere il titolo di dottore di ricerca in sociologia. In realtà io non avevo nessun titolo formativo sociologico, non avevo fatto nessun esame, però mi sono presentato e ho vinto, secondo i miei ricordi, brillantemente in una commissione che era presieduta da Gallino. Quindi, nel 1987 ho conseguito, attraverso questa modalità, il titolo di dottore di ricerca in sociologia. In questo modo ho potuto accedere anche ad un titolo sociologico formale. Dopo le vicende dell”89 (il superamento del Pci), divenne però complicato per tante ragioni proseguire la mia attività nel Centro Riforma dello Stato e sono, quindi, approdato, con il consenso di Trentin, all’epoca segretario generale della Cgil, all’IRES, dove era stato, invece, in passato per 4/5 anni in qualità di collaboratore part-time. E a quel punto ci sono, diciamo, due novità. Una che, dopo essermi occupato di diversi temi nei 10 anni precedenti, a partire da quel momento ho finalmente potuto occuparmi a tempo pieno e solo, in modo specializzato, di lavoro e sindacato, perché in questo consisteva la mia missione primaria. Mi viene anche attribuita una responsabilità, quella dell’area delle relazioni industriali dell’IRES nazionale, cosa che mi faceva sentire già riconosciuto con qualche grado da “ufficiale”. E soprattutto, a quel punto, non ho più riscontrato le ragioni che limitavano in precedenza il mio rapporto con Accornero. In questo periodo (durato fino al 1999) ho mantenuto e coltivato i miei rapporti con molti sociologi e sono entrato finalmente, adesso non ricordo esattamente quando, anche in AIS-ELO, prendendo parte ai congressi, pur non ricoprendo una posizione accademica formale.

Sono questi gli anni in cui si consolida la mia attività nella sfera accademica, anche grazie a una più stretta collaborazione con Accornero. È proprio in quegli anni che vado da lui a dargli la mia disponibilità a fare ricerca insieme: non gli chiedo, pertanto, un approdo accademico, ma di collaborare con lui nelle attività di ricerca ed anche su altri versanti. Accornero mi accoglie positivamente, anche perché aveva già dimostrato una stima precedente e fa due cose che sono un po’ la premessa ad un pieno ingresso nel mondo accademico. La prima è che mi chiede di tenere alcuni seminari nell’ambito del suo Corso, cosa che io faccio per 3/4 anni di seguito, anche con buon  successo, intanto perché avevo imparato a fare lezione; quindi, ero piuttosto svelto da questo punto di vista e poi perché avevo il vantaggio che, mentre lui faceva un corso molto  ampio e strutturato (rodato e di ampio successo), io, invece, mi limitavo a parlare solo su alcuni  temi di attualità sui  quali, secondo i miei ricordi  esisteva una curiosità diffusa; quindi, potevo contare sulla mobilitazione anche ampia di ragazzi che erano interessati a seguire questi miei seminari. La seconda cosa è che mi propose e mi scelse come suo collaboratore alla Commissione Garanzia dello Sciopero, nella quale era approdato nel 1990 (da inventore della formula del “conflitto terziario”). Durante il suo mandato, e anche dopo ho continuato per qualche anno, sono così diventato esperto della Commissione Garanzia: e ho potuto accedere ad uno dei maggiori osservatori vivi sulla dinamica dei conflitti nel nostro paese. All’epoca, la Commissione di Garanzia stava istituzionalizzandosi, muovendo i primi passi, non aveva il quadro di funzionari competenti di cui dispone nella sua versione attuale e, invece, annoverava un certo numero di esperti, i quali erano in realtà i collaboratori dei componenti della commissione.

In questi anni, inoltre, e questa è una novità per me, comincio anche a fare ricerca sul campo. Svolgo e partecipo altresì a ricerche su sindacalizzazione, codeterminazione, il voto operaio (i primi disallineamenti dei lavoratori rispetto alla sinistra) all’interno di diversi progetti, alcuni dei quali anche europei. Ad esempio, uno studio sull’evoluzione delle relazioni industriali in alcuni paesi (diretto da Regini) nell’ambito di un grosso progetto del CNEL, diretto da Brunetta, all’epoca presidente di Commissione del CNEL. Uno studio comparato sulla Partecipazione diretta, promosso dalla Fondazione di Dublino e diretto da Ida Regalia. E poi partecipo anche a diverse ricerche che richiedevano l’elaborazione di dati quantitativi. Quindi, in questo modo completo la mia formazione, la arricchisco nelle dimensioni che mi mancavano più tipiche della ricerca sociologica sul campo. Per rafforzarmi mi dedicai anche allo studio di manuali metodologici, colmando non solo con le letture di testi, ma anche con volumi istituzionali, i chiaroscuri della mia formazione del periodo precedente. Quindi, è stato un periodo molto ricco, anche perché è un periodo in cui comincio a pubblicare tante cose. Perciò, in tutto questo periodo degli anni ’90 il mio profilo diventa più chiaro anche sul versante più direttamente accademico. Partecipo anche ad attività del circuito sociologico, come quelle AISE-LO e anche quelle dell’AISRI, si rafforza nel contempo la collaborazione con Accornero e esce nel ’92 il mio libro sulla democrazia economica, che si chiama “Non solo produttori”. Pubblico poi, era il 1995, “L’incerta rappresentanza” con il Mulino, nel quale propongo alcune strade per analizzare e misurare la rappresentanza dei sindacati.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è incerta-rappresentanza.jpeg

Le pubblicazioni di questo periodo indicano anche quali sono i miei interessi di ricerca. Sono tra i primi sociologi a interessarmi e a specializzarmi sul tema della rappresentanza, che sarà uno degli oggetti anche centrali della mia attività ed elaborazione successiva nel mondo sociologico. Se ne occupavano molto i giuristi ma poco i sociologi. Scrivo un libro che è largamente sottovalutato, ma che sarebbe da rivedere, trattandosi dell’unica elaborazione in materia, che si chiama “Gli altri sindacati”. É il frutto di una ricerca molto ampia, che era stata curata da Giuliano Urbani, negli anni precedenti, sugli attori non confederali e in cui io utilizzando la ricerca sul campo avevo allargato l’analisi di partenza costruendo una nuova tipologia, per racchiudere gli attori sindacali extra confederali. Una tipologia che resta ancora largamente valida e che andrebbe però aggiornata, visto che nel frattempo, come ho potuto vedere dal mio osservatorio della Commissione di Garanzia negli anni recenti, questi attori hanno continuato a crescere e a riprodursi. Scrivo, inoltre, in quegli anni un libro abbastanza profetico, anche questo poco considerato dai sociologi, che si chiama “Seconda Repubblica senza sindacati?”, con il punto interrogativo, in cui rifletto sulla tesi, che era sostenuta all’epoca dalla Cisl di D’Antoni più che dalla Cgil, che per istituzionalizzare la forza dei sindacati, in un sistema politico divenuto bipolare, era necessario che la concertazione andasse in Costituzione, o che comunque fosse fortemente istituzionalizzata.

Infine, questo periodo si chiude con l’ultima ricerca svolta in Ires nel periodo in cui vi ho lavorato a tempo pieno, che tra l’altro è una ricerca basata su questionario e anche, mi pare, su interviste, diretta da Accornero, che riguardava “Il popolo del 10%”, come si intitolava il volume di Donzelli, che la pubblicò, è una ricerca condotta intorno alla famosa cassa INPS, cui andavano i versamenti dei collaboratori coordinati e continuativi (che erano appunto allora del 10%). È la prima, o tra le prime, ricerche che concentra in modo sistematico l’attenzione sulla crescita di questo fenomeno del lavoro non standard, che poi verrà largamente affrontato da studi e ricerche di vario genere nel periodo successivo.

A questo punto comincia anche la mia attività accademica da solo, al di là di Accornero, nel senso che svolgo per due anni l’insegnamento di relazioni industriali nella sezione di Scienze politiche di Prato, che aveva un corso di laurea specifico sul tema ed era coordinato da Franca Alacevich. Ho poi il primo incarico di insegnamento a Teramo, in Sociologia del lavoro, dove ad un certo punto nel ’98 viene chiamato il posto da associato, che poi vinco. E quindi, parte la mia esperienza pluri-decennale di docente all’università di Teramo, che rappresenta ancora oggi, dopo il mio passaggio, ma anche quello di Luigi Burroni, una realtà importante per la sociologia economica dove operano con successo diversi amici e colleghi.

 

Nello stesso momento in cui divento professore a Teramo da associato e, quindi, la mia carriera accademica decolla, ci sono altri due fatti che arricchiscono il mio curriculum e rafforzano le gambe dei miei interessi. La prima è la mia nomina, all’inizio del 2000, nel Comitato esecutivo dell’ARAN dal Ministro della funzione pubblica dell’epoca, Bassanini; la seconda, più o meno nello stesso periodo, è la direzione della nuova serie, rinata per volontà di Cofferati, dei “Quaderni di rassegna sindacale”. Quest’ultima esperienza, che continuo a seguire tuttora, mi ha sicuramente permesso di contribuire ad alimentare l’interesse di un’ampia generazione di giovani ricercatori, non solo sociologi, che si sono occupati e si occupano dei temi del lavoro, del mercato del lavoro, del sindacato e delle politiche sociali.

Di fatto tu sei stato un anello di congiunzione fra la sociologia del lavoro, il diritto del lavoro, fra i giuristi del lavoro, sociologi del lavoro, relazioni industriali e mercato del lavoro, hai fatto cioè un grosso lavoro di regia.

Mah grosso lavoro di regia, soprattutto di promozione di tanti giovani che hanno attraversato questa esperienza, molti del Comitato di redazione e alcuni continuano ad esserlo, anche se adesso è venuto il momento di inserire una nuova leva di giovani e passare quelli con una certa esperienza alle spalle a funzioni più mature. Però, è stato sicuramente anche questo un luogo di dibattito, in cui abbiamo cercato di cambiare la cultura di riferimento del mondo sindacale, non solo quello della Cgil. L’attività di QRS continua ad essere ampia ed apprezzata. In alcuni momenti è stata maggiormente supportata dal sindacato e dai sindacalisti, della Cgil e non solo, ed in altri meno; ma resta un esempio importante – come già nella prima serie della Rivista impostato da Accornero – del collegamento possibile tra mondo della ricerca e mondo sindacale. Ricordiamo che il Comitato scientifico internazionale e quello nazionale vedono la partecipazione delle principali personalità sociologiche contemporanee come Crouch, Visser, Streeck, e Baccaro, con Cella, Regini, Regalia e Feltrin ma anche di studiosi di altre discipline, in particolare i giuristi del lavoro da Treu a Bavaro, Guarriello e Gottardi (senza dimenticare i rimpianti Bellardi e Romagnoli). Con Baccaro soprattutto è esistita per molto tempo una collaborazione consolidata. Ho imparato ad apprezzarlo fin dalla sua ricerca giovanile in cui voleva verificare sul campo in modo originale le ragioni e gli impatti del referendum successivo all’accordo-sindacati governo del ’96 sulle pensioni. Poi con Lucio abbiamo partecipato insieme a un progetto internazionale comparato sulla rivitalizzazione del sindacato, che è stato pubblicato all’inizio degli anni 2000 sull’European journal of Industrial relations. Insieme abbiamo anche scritto un saggio sulla rivitalizzazione del sindacato confederale in Italia e anche un altro sulla democrazia nel sindacato, apparso, invece, su Quaderni nel 2011. Diverse sono le figure di riferimento nel panorama sociologico attuale con cui ho mantenuto stabili rapporti di amicizia e collaborazioni. Tra questi mi fa piacere ricordare anche Valeria Pulignano, avendola conosciuta molti anni fa, nella fase finale di questo studio sulla rivitalizzazione dei sindacati in una conferenza a Londra, era il 2009. È nato un rapporto, una collaborazione, ero colpito dalla sua grande voglia di lavorare, dal suo attivismo, dalla sua curiosità conoscitiva, anche la sua capacità di produzione scientifica che è stata molto intensa. Devo dire che poi ho avuto la fortuna di conoscere e di mantenere i rapporti vivi scientifici, ma anche personali e umani, con alcuni dei grandi delle nostre discipline. Tra i migliori della nuova generazione di sociologi economici che oggi è anche Presidente della Sisec, Luigi Burroni, con cui ho avuto il piacere di collaborare, avendo condiviso anche per alcuni anni la permanenza a Teramo. Con Luigi ci lega l’interesse per i modelli di regolazione dell’economia, per il ruolo esercitato dalle relazioni industriali e dalle politiche del lavoro e del welfare nelle configurazioni istituzionali dei capitalismi, tema sul quale sono ritornato di recente e che credo continui a essere centrale oggi, anche se ci sono diversi autori che hanno iniziato a dirci che dobbiamo più preoccuparci del capitalismo in quanto tale, che non dei capitalismi nazionali. In realtà le configurazioni nazionali, il peso delle istituzioni rimangono importanti, così come l’agency degli attori e per noi sociologi economici tali aspetti si confermano centrali, da continuare a esaminare come fa ormai da tempo in modo brillante Luigi nei suoi studi.

Tra i grandi del passato? Di chi senti maggiormente l’influenza?

Il primo pensiero non può non andare ad Accornero, che purtroppo è scomparso, poi ho avuto per tanti anni e continuerò ad avere un rapporto, per me stimolante, con Baglioni. Sono stato nella redazione della rivista che lui ha fondato, i Quaderni della partecipazione, ho collaborato con lui in tante cose, abbiamo avuto scambi molto fruttuosi. Ovviamente l’altra figura di riferimento, che è stata una figura che mi ha dato anche un sostegno accademico, che io non dimentico, è Massimo Paci, che si è sempre occupato di oggetti con i quali io intrecciavo i miei interessi di studio. I suoi percorsi non costituivano esattamente il focus della mia attività scientifica, ma con le sue riflessioni io ho sempre intrattenuto, al di là delle relazioni personali, un campo di comunicazione e di confronto che ho considerato molto proficuo anche in virtù della sua capacità di visione larga delle nostre discipline, in grado di alimentare gli itinerari degli altri studiosi, di non essere semplicemente legato, diciamo, alle caselle su cui era organizzata la sua biografia intellettuale.

E cosa ci dici delle attività e delle ricerche condotte prima dell’approdo in Sapienza?

Sono stati anni, poi decenni, interessanti (se posso consentirmi una citazione…). Ho potuto condurre diverse ricerche sul settore pubblico, grazie al supporto dell’Aran, nel periodo 2003-2009 tra le quali segnalo quella relativa allo spazio e al ruolo della contrattazione decentrata.  Poi un filone importante che ho seguito ha riguardato le indagini sul campo relative alle rappresentanze sindacali di base, diventate Rsu (Rappresentanze sindacali unitarie) nel 1993. Ho condotto alcune ricerche relative al funzionamento di questi organismi in diverse aree territoriali, insieme al collega Adolfo Braga, attualmente Direttore della Fondazione dell’Università di Teramo, con cui ho anche condiviso a lungo interessanti, spesso divertenti, attività di formazione (promosse dall’ISF, Istituto superiore di formazione, della Cgil). Ricerche – pubblicato in due volumi di Donzelli – che ci hanno consentito di testare la vitalità e l’adattabilità di questi organismi, aspetti già evidenziati da Ida Regalia, ma anche di segnalare problemi ulteriori di funzionalità ed efficacia che richiedevano, a nostro avviso, una regolazione più mirata, sulla falsariga di quanto emergeva nelle pubbliche amministrazioni, grazie anche al sostegno legislativo. Più in generale ho continuato a svolgere ricerche sul sindacato da vari angoli visuali (le determinanti della sindacalizzazione con l’Ires per il centenario della Cgil, Il sindacato e i giovani etc.). Ed anche ad occuparmi del sindacato come organizzazione complessa: da “Sindacato in bilico” (2004) a “Al bivio. Lavoro sindacato e rappresentanza nell’Italia di oggi” (2016). In questo ultimo libro, scritto a quattro mani con Paolo Feltrin, abbiamo mostrato la resilienza delle organizzazioni sindacali, grazie al loro radicamento, oltre che sociale anche istituzionale, e nello stesso tempo abbiamo messo in guardia verso le nuove insidie sociali che si profilano e che richiedono un salto nella loro capacità d’innovazione.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è sindacato-in-bilico-1.jpeg

Ho condotto e poi diretto nell’ultimo ventennio diverse ricerche quantitative sulle trasformazioni del lavoro, che sono diventate una sorta di Report periodico, fino alla più recente dedicata alle criticità e alle opportunità esplose durante il Covid. Ricerche anche con moltissimi questionari, come quella, apparsa nel 2005 (e che si basava su 80 mila interviste), che vedeva in Accornero il coordinatore scientifico e in Cesare Damiano, poi ministro del lavoro, il referente politico. Anche in questo ultimo caso un rapporto personale e di collaborazione fecondo, destinato a durare nel tempo. Attraverso i risultati di queste survey abbiamo aperto la strada, oltre che ad una migliore conoscenza dei problemi della qualità del lavoro e delle domande ed aspettative dei lavoratori, all’approfondimento di fenomeni, che sono poi diventati di senso comune (e sono in seguito stati confermati anche dagli istituti statistici ufficiali): come quello dell’addensamento dei salari medi verso il basso, se osservati nella comparazione internazionale e la diffusione, superiore alle aspettative, di “salari poveri”, o ancora la montante e non risolta, insicurezza sociale nel periodo successivo al 2008, che continua a trascinarsi fino ad ora.

Raccontaci poi del tuo arrivo in Sapienza Che cosa è stata la sociologia a Roma, facendo riferimento anche agli importanti studiosi/e che si sono alternati.

Venire in Sapienza rappresentava il coronamento di un percorso accademico. Roma è sempre stata una fonte di grande attrazione sul piano scientifico, perché le nostre discipline sono state sicuramente importanti, non solo nell’ambito della sociologia romana, ma hanno avuto anche un ruolo significativo su scala nazionale. Adesso, possiamo parlare di alcune delle figure che hanno caratterizzato la vita scientifica del Dipartimento che poi è diventato adesso di Scienze Sociali ed Economiche, ma che ha sempre mantenuto nel corso degli anni una sua distinzione con nomi differenti, perché sicuramente ho ricordato due figure. Una figura storica e già più volte citata, approdata lì nell”80, è quella di Accornero, il quale è stato importante non tanto nella vita accademica, di cui lui si è sempre occupato relativamente poco, ma sicuramente per la sua capacità di alimentare un circuito scientifico di altissimo profilo. A Roma si sono poi alternati anche altri grandi della nostra disciplina come Federico Butera, che io ho conosciuto poco nel periodo romano, mentre ho imparato a frequentare, apprezzare e ad interagire con lui negli anni successivi. Ma anche lui è stato il portatore di un punto di vista sui cambiamenti organizzativi nelle imprese e nelle stesse organizzazioni, se mi si consente la cacofonia, che ha una risonanza nazionale ed è un punto di riferimento, non solo del mondo accademico. Le due figure di cui abbiamo parlato erano figure importanti, perché avevano un loro carisma indiscusso e accettato sulla scala più larga, una reputazione che andava oltre i confini dell’accademia. Ma erano scientificamente molto considerati e di un rigore assoluto; quindi, hanno contribuito a portare l’asticella qualitativa degli studi, delle ricerche, dell’importanza della sociologia in Sapienza assolutamente oltre le soglie più elevate possibili. Sicuramente, dentro questo empireo dei grandi dobbiamo considerare, come anticipato, anche Massimo Paci, che è passato a Roma nella parte finale della sua carriera, dove pure ha scritto cose di grande importanza, incluse le sue incursioni degli anni recenti sulla sociologia storica. E soprattutto ha avuto il merito di far crescere diverse generazioni di studiosi in tante parti del nostro paese; quindi, è una figura che al di là del suo lavoro e delle ricadute, a Roma ha avuto un impatto su scala larga di grande regista nella nascita e negli sviluppi della sociologia economica: aspetto che gli vada riconosciuto e che resta un titolo di merito non superabile. Sicuramente, ci sono altre figure importanti. Una figura, che tanti sociologi guardano con un po’ di degnazione, perché viene considerata un po’ troppo mondana, è quella di De Masi. Certo, alcune delle tesi di De Masi sono fragili, assecondano un po’ troppo lo spirito del tempo, ma non dimentichiamoci che il primo De Masi fa ricerche importanti, come quelle dell’ISVET sui lavoratori italiani. Poi, ha consolidato, diciamo, le sue elaborazioni con il trattato sulla sociologia del lavoro e delle organizzazioni, che è sicuramente da considerare un contributo di livello e spessore quantitativo e qualitativo notevoli. E poi, diciamo la verità, questa sua vicinanza con la politica, che molti gli contestano, mi pare intanto un elemento di ricchezza dal punto di vista della sua capacità di profetizzare, prevedere e accompagnare evoluzioni interessanti, ma anche un fattore di ricchezza conoscitiva. Sotto il profilo sociologico gli va riconosciuto e sicuramente è, tra gli studiosi che si occupano del lavoro, quello che ha una maggiore attenzione verso gli effetti delle nuove tecnologie, la comprensione del mondo del lavoro che verrà, forse con alcuni eccessi apologetici, ma sicuramente con la capacità di individuare aspetti, variabili e modelli in corso che sono sicuramenti cruciali e importanti da studiare. E poi possiamo vantare anche altre figure di grande importanza, come Enrico Pugliese, che è uno studioso di grande profilo su tanti temi (dalla disoccupazione e dal mercato del lavoro fino al fenomeno migratorio).

A Roma poi mi sono inserito, molto bene ma, va detto, è stato un inserimento anche aiutato dalla presenza di un gruppo diversificato di giovani studiosi/e, che io ho contribuito, credo, a far crescere. Insieme abbiamo fatto diverse cose, molte attività e alcune ricerche. Io ho molto sostenuto la necessità di fare gruppo, di fare ricerca condivisa in modo rigoroso, di essere competitivi in tutti i sensi, soprattutto sul piano della qualità ai fini dell’impostazione e realizzazione dei nostri studi. Sono grato a questi “giovani” per le tante cose che ho imparato grazie a loro ed anche per la ricchezza umana delle nostre relazioni.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è il-lavoro-era-digitale.jpeg

Parliamo dell’AISRI, dove anche lì hai promosso diverse attività di ricerca, di divulgazione anche promozione dei giovani ricercatori.  

Sì, diciamo, poi ad un certo punto, mi è stata fatta la proposta di essere presidente dell’AISRI (l’Associazione italiana di studio sulle relazioni industriali, fondata da Giugni negli anni settanta), che non è una proposta così scontata e meccanica, perché, intanto la mia biografia è molto diversa da quella dei precedenti presidenti, che erano tutti quanti di estrazione politica e/o  sindacale diversa dalla mia, essendo io notoriamente comunista nella mia storia politica passata, Cgil nella mia prossimità sindacale (sia pure , debbo aggiungere, con  diverse note ecumeniche in entrambe le arene). Quindi, una proposta che mi ha fatto piacere e che mi ha visto impegnato a rafforzare la coesione tra studiosi di varie discipline e i protagonisti delle due parti sociali, nell’obiettivo di ridisegnare insieme la conoscenza delle relazioni industriali, in una evidente fase di passaggio a nuovi scenari e di erosione dei modelli del passato.

Ritengo che sia stato fatto un buon lavoro, ma mi fa piacere sottolineare dal mio punto di vista in particolare due aspetti che mi sono sembrati proficui e rilevanti.

Il primo riguarda il fatto che per me si è trattato di un’occasione per alimentare quello che considero come un fil rouge della mia storia: la collaborazione e la reciprocità con i giuristi del lavoro. Alcuni ne ho citato prima, ma il mio elenco di studiosi che stimo (e con cui ho avuto rapporti) non è breve; quindi, non vorrei dimenticarne alcuni che considero importanti, anche perché da loro ho avuto occasione di imparare tanti aspetti e dettagli utili per la ricerca sociologica. Faccio tre eccezioni. Ne approfitto per ricordare qui Giuseppe Santoro Passarelli, che è stato Presidente della Commissione di Garanzia dello sciopero di cui ho fatto parte anche io, designata nel 2016 dai Presidenti delle due Camere: insigne studioso, scomparso improvvisamente nelle scorse settimane. Poi vorrei segnalare Lucia Valente, che ho potuto apprezzare in tante occasioni negli anni trascorsi insieme nel Dipartimento di Scienze sociali ed economiche della Sapienza (ed anche dopo). Infine, mi pare d’obbligo menzionare Gaetano Zilio Grandi, che è stato mio successore come Presidente nel 2019.

Il secondo aspetto di cui sono orgoglioso consiste nel fatto che ritengo di aver saputo infondere un ruolo di impulso alle attività, soprattutto nella promozione dei giovani studiosi. Molti si sono affacciati con successo ai Seminari promossi dall’AISRI e hanno dato vita ad un vero e proprio ricambio generazionale. Sono soprattutto queste generazioni più recenti che hanno incarnato una nuova lettura delle relazioni industriali: non di un territorio il cui spazio si stava erodendo, ma dentro il quale era piuttosto in corso uno spostamento dei confini e delle opportunità, che spettava agli studiosi (oltre che agli attori) saper cogliere e interpretare.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è verso-nuove-RI.jpegVorrei anche ricordare due libri che hanno punteggiato questo periodo. Il primo, del 2013, è “Verso nuove relazioni industriali”, curato per il Mulino insieme a Tiziano Treu: un volume che raccoglie le principali riflessioni sui cambiamenti in corso ed anche sulle possibili soluzioni per curare una buona istituzionalizzazione delle nostre relazioni industriali.

Il secondo è il piccolo manuale (“Relazioni industriali”, Egea, con Fabrizio Pirro), pubblicato la prima volta nel 2016, che sta per arrivare alla terza edizione e ha ricevuto una buona accoglienza da parte degli studenti e dei colleghi.

L’ultima domanda per concludere, quali le prospettive e i temi di cui si dovranno occupare i sociologi economici  sociologi economici e del lavoro, dal tuo punto di vista e la tua angolazione?

Come mostra il successo di partecipazione degli eventi promossi dalla Sisec, il nostro è un mondo molto vivo e vitale: nel quale si incrociano lavori e ricerche ampi e di spessore con studi interessanti, seppure di più corto raggio. Un grande universo che va potenziato. In passato esisteva certamente un respiro profondo del dibattito scientifico e una portata larga di interrogativi teorici, che oggi, mi pare, solo in parte rispecchiata dagli studi che noi vediamo. Io personalmente ne ho visti tanti, nel bene e nel male, negli scorsi anni come membro della Commissione di abilitazione o di concorso.

Eppure, possiamo annoverare anche in questa fase filoni e paradigmi che si muovono in questa direzione più ambiziosa. Ad esempio, quello della varietà di capitalismi, che è stato a lungo un polmone riconoscibile. Od anche adesso, nel periodo più prossimo a noi, quello dei regimi di crescita, alimentato dal nostro amico Baccaro (ma non solo). Questi approcci, nella loro notevole ricchezza, mi sembra dimostrino a sufficienza quel respiro, quella vastità degli interrogativi teorici, dell’importanza del rigore delle verifiche empiriche, che io penso possano essere declinati e arricchiti nella prospettiva futura della nostra disciplina (o forse dovremmo dire delle nostre discipline).

E soprattutto ritengo importante, come in certa misura anche io sto cercando di fare negli ultimi miei libri in corso di pubblicazione, di ri-declinare e ritornare sul tema della portata regolativa del lavoro. Non c’è dubbio che abbiamo assistito in questo ambito, e la pandemia lo ha confermato, a un ciclo di cambiamenti organizzativi, tecnologici, culturali profondissimi che chiedono di essere interpretati e sistemati (a partire dalle gambe predisposte nell’ambito delle relazioni industriali). Tutti questi aspetti, però, vanno inquadrati e classificati meglio da studi sia di ampio spettro che più specifici, settoriali o basati su case studies, che credo sfidino tutta una generazione di studiosi. La mia opinione è che i più giovani (e non solo) si debbano misurare con questo orizzonte, perché è venuta meno l’idea, da cui anche i sociologi economici sono stati attratti per una fase, del successo inevitabile del mercato:  per definirla un po’ politicamente, la fase del successo non solo del neoliberismo,  ma della declinazione blairiana della terza via, che hanno propagandato a lungo la convinzione che queste tematiche e tutte le questioni relative alle nuove contraddizioni materiali fossero state superate o  diventate secondarie. Mentre, non solo esse non erano sparite, come abbiamo potuto nitidamente osservare, ma sono tornate ad essere una tra le fratture fondamentali per capire quello che accade nelle nostre società. Quindi, quello che mi auguro è che questo tipo di oggetti sia, nelle diverse sue possibili declinazioni, una delle fonti ispiratrici della ricerca plurale messa in campo dal nostro mondo nei prossimi anni.

Posted in Interviste.