#2/2014 – GIAN PRIMO CELLA con Roberto Pedersini

 Torniamo al tuo percorso di ricerca…

 Nei due decenni successivi alla pubblicazione del libro sulla Cgil diedi più spazio al filone sulla Sociologia del lavoro e dell’industria; successivamente mi sono maggiormente concentrato su quello su sindacato e relazioni industriali perché mi accorsi, ad un certo punto, che non si poteva parlare di lavoro e di industria senza fare ricerche concrete sui luoghi di lavoro. Il più importante trait d’union fra questi due filoni del mio lavoro, è stata la grande ricerca sul movimento degli scioperi nel ventesimo secolo, forse la ricerca più impegnativa con la quale mi sono misurato. In essa si univa, da una parte, l’essere sociologo del lavoro e dell’industria con sensibilità storica e, dall’altra, l’attenzione alle Relazioni industriali. Questo è stato per me il lavoro più importante degli anni Settanta.

 Nel volgere degli anni Ottanta, emergono anche il tema della regolazione dell’economia e lo studio di Polanyi…

 Se non mi venisse da sorridere, direi che quella fu la svolta, perlomeno la svolta dei miei interessi negli anni Ottanta, che fu strettamente legata all’esperienza della rivista Stato e Mercato, che mi richieste di fare un ulteriore passo verso i temi della regolazione, cioè verso la Sociologia economica, e un po’ anche verso la Scienza politica. S&M

 Raccontami un po’ come nasce l’esperienza di Stato e Mercato.

 Nasce da un gruppo di studiosi più o meno coetanei, in prevalenza sociologi ma non solo. Erano gli anni dei grandi studi sui modelli neocorporativi e sulle forme di regolazione dell’economia, che vedevano nella political economy una nuova disciplina nell’ambito delle scienze sociali, molto sensibile alla dimensione storica. C’era innanzitutto questo gruppo di sociologi italiani, con qualche economista (pochi, ma di rilievo) e una collaborazione sistematica con alcuni grandi nomi della scienza politica, della political economy, e della sociologia internazionali, che vanno da Philippe Schmitter a Colin Crouch, a Charles Maier a Suzanne Berger a Alessandro Pizzorno. Questo non ha significato cambiare argomento, ma collocare i miei temi più tradizionali in questo quadro più ampio della regolazione.

L’interesse per Polanyi quando emerge?

 Fu Accornero a parlarmene la prima volta, se non mi sbaglio nel 1974 a Cogne, in Val d’Aosta (lui andava in questo luogo tipico della sinistra piemontese, ma non solo). Ci trovammo lì e mentre giravamo nei boschi Aris mi disse: “Sai che è uscito questo libro di Polanyi?”. Era la traduzione de La grande trasformazione, pubblicato nel 1944 e uscito in italiano proprio nel 1974. Io ne avevo sentito parlare poco, ma Aris mi disse: “Guarda è una cosa fondamentale, devi leggerlo”. Allora sono tornato a Milano, l’ho comprato, l’ho letto, ma non mi è piaciuto. Non l’avevo capito, c’era qualcosa che non riuscivo a cogliere… Passò qualche anno, poi non so che cosa accadde, ma qualcuno mi disse che bisognava ritornare su Polanyi e così ho fatto: ho letto tutto e a questo punto c’è stata l’attrazione, in fondo un po’ l’innamoramento. Però posso dire che il mio primo contatto non fu felice, perché non si capiva bene il fine della sua argomentazione: perché all’inizio, soprattutto leggendo La grande trasformazione, si rimane un po’ perplessi; ma se si affronta tutto il resto e si riesce ad entrare nel tema, si rimane affascinati. Anche perché la lettura di Polanyi ha trascinato altre letture, la scoperta dell’antropologia economica, di grandi libri che avevo sentito nominare, ma che non avevo mai utilizzato. La differenza fondamentale per chi fa il nostro lavoro è fra le cose che si utilizzano e i testi e le opere che si leggbraudelono: un conto è leggere, un conto è utilizzare, ossia inserire la lettura dentro un personale progetto di ricerca e di argomentazione. Questi anni hanno voluto dire anche la scoperta di Fernand Braudel e la lettura di molte sue opere, compresi i tre volumi di Civiltà materiale, economia e capitalismo. Questo avvicinamento a Polanyi ha comportato anche un po’ un distacco dalla Sociologia del lavoro e dell’industria.

 Su questo filone di ricerca si sono poi inserite riflessioni sulla teoria dell’azione, sulla prospettiva cognitiva, di teoria sociale, e anche sull’analisi istituzionalista, come nel caso di North. Si è trattato di un tentativo di superare i limiti di Polanyi?

 La lettura e lo studio di Polanyi lasciava alcune perplessità. Il suo approccio era eccezionale per una ricostruzione storica dell’economia e dello sviluppo sociale ed economico (infatti, si trovavano molti rapporti anche con Weber). Ma destava qualche perplessità la possibilità di applicarlo allo studio delle società contemporanee. È emersa così a necessità di affiancare o di reinterpretare il modello polanyiano attraverso l’inserimento dell’azione, per molti motivi di cui uno semplicissimo: come direbbe James Coleman, perché il capitale sociale primordiale non c’è più. Ralf Dahrendorf aveva introdotto due concetti, che non sono neanche molto innovativi, ma sono interessanti per l’argomentazione che propone. I due concetti sono, da una parte i legami (le legature nell’edizione italiana) e dall’altra le opportunità o le opzioni. Nella tarda modernità, si entra in una fase nella quale i legami sociali si riducono e le opportunità e le opzioni diventano enormi. Ciò significa che per i soggetti individuali aumentano le scelte e si riducono le costrizioni. Le impostazioni deterministiche – e l’impostazione polanyiana è deterministica – o addirittura olistiche non sono più sostenibili in toto, perché gli individui hanno possibilità di scelta molto ampie e non si può prescindere dallo studio dell’azione, dalle strategie di scelta degli attori. L’interesse per l’azione è prodotto soprattutto da questo. Non si potevano più considerare le relazioni sociali o quello che accade nella società e gli eventi come totalmente determinati dalle istituzioni o comunque, usando un termine che ci ha ricordato Coleman, dal capitale sociale primordiale.  North

Ero molto interessato ai lavori di Douglass North perché faceva proprio questo: studiava le istituzioni, ma ne ricercava il micro-fondamento; le istituzioni erano viste addirittura come derivanti dalle scelte individuali. Sono stato attratto innanzitutto dal libro del 1990, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, che poi mi chiesero di discutere in Stato e Mercato, così come per altri testi rilevanti dal punto di vista teorico; si vede che i colleghi riconoscevano in me una sensibilità, un’attenzione particolare, almeno su questo. Questi interessi segnalano un avvicinamento alla teoria sociale e, in fondo, un abbandono della sociologia del lavoro. Nella seconda metà del mio percorso di studioso mi sono occupato, da un parte, di problemi della regolazione nell’ambito della Sociologia economica con sensibilità storica e con attenzione ed attrazione verso problemi più generali di teoria sociale (ma non nel senso della scuola della regolazione francese); dall’altro, mi sono occupato sempre, più o meno sistematicamente, anche perché non riuscivo a liberarmene, di relazioni industriali.

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