La precarietà di e dentro l’università italiana vista dalla sociologia economica

Grazie alla collaborazione orizzontale con i precari della Associazione Francese di Sociologia AFS, che ringraziamo, abbiamo pubblicato un breve resoconto della situazione per gli early Career in Italia (https://afs.hypotheses.org/300#more-300). Si tratta di una riflessione a più voci che vuole, in maniera sintetica, descrivere la situazione attuale dell’Università italiana anche a chi non è pratico del nostro paese. Si tratta inoltre, di un modo per ragionare e mantenere alto il dibattito a livello internazionale che, se a livello accademico non è mai sopito, lo è in misura maggiore nel discorso pubblico e politico. 

L’università pubblica italiana versa in condizioni molto difficili. A seguito di problemi strutturali di lungo periodo e di riforme recenti che hanno aggravato la situazione invece di porvi rimedio, il sistema universitario italiano risulta attualmente sotto-finanziato e presenta preoccupanti squilibri, sia per rapporto alla sua composizione interna sia in relazione alla dimensione territoriale.

Complessivamente, negli ultimi 10 anni l’intero sistema universitario italiano si è ridotto di circa un quinto: sono infatti diminuiti di circa il 20% rispetto alla fine degli anni Duemila gli studenti immatricolati, il personale docente e amministrativo, i corsi di laurea disponibili e le risorse stanziate come finanziamento pubblico. Tale ridimensionamento – che appare ingiustificato e difficilmente comprensibile in un paese come l’Italia che è agli ultimi posti delle classifiche Ocse per numero di laureati (http://www.oecd.org/education/skills-beyond-school/EAG2017CN-Italy-Italian.pdf) – è direttamente collegato al blocco delle assunzioni verificatosi a seguito dell’approvazione della riforma Gelmini (legge 30 dicembre 2010, n. 240), che ha impedito al sistema di sostituire i docenti arrivati all’età pensionabile, determinando un indebolimento complessivo del sistema e frustrando al contempo le legittime aspettative lavorative della generazione di ricercatrici e ricercatori formatisi negli ultimi dieci anni. Questi, una volta terminato il percorso dottorale e post-dottorale, hanno infatti dovuto confrontarsi con barriere all’ingresso pressoché impenetrabili, aggravate dall’eliminazione della figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituita con due diverse figure a tempo determinato: il ricercatore di tipo A, che prevede un contratto della durata di tre anni eventualmente prorogabile per un ulteriore biennio, e il ricercatore di tipo B, con un contratto in tenure track della durata di tre anni al termine dei quali è possibile, a seguito di valutazione positiva, entrare in ruolo come professore associato.

Allo stato attuale, i contratti da ricercatore di tipo B, che offrono le maggiori tutele, rappresentano però solo il 4,7% del totale delle posizioni strutturate in università: la normativa ha infatti permesso agli atenei di investire le scarse risorse disponibili prioritariamente in progressioni di carriera per coloro che erano già assunti a tempo indeterminato. Secondo una stima prudenziale del Coordinamento ricercatrici e ricercatori universitari, per ogni nuovo ricercatore assunto negli anni 2011-2016 vi sono state cinque progressioni di carriera. La mancanza di nuovo reclutamento, in favore delle promozioni “interne”, si traduce in uno dei rapporti studenti / docenti peggiori tra i paesi dell’Unione Europea: era pari a un docente ogni 28 studenti nel 2008-09, attualmente è superiore a un docente ogni 33 studenti (fonte elaborazione su dati Miur).

Specularmente, per garantire la tenuta del sistema, è proliferato il precariato universitario, con una moltiplicazione del lavoro a termine e sottopagato, quando non addirittura gratuito. Tra il 2009 e il 2016 il numero di ricercatrici e di ricercatori precari che nelle università italiane è infatti cresciuto in misura consistente, passando da circa 40 mila nel 2009 a oltre 56 mila nel 2016 (fonte dati Miur). In altri termini, nella fase attuale circa la metà di coloro che lavorano nelle università italiane è precario e, allo stato attuale, con scarse possibilità di stabilizzazione. Secondo l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca Italiani (ADI), a meno di un’inversione di rotta il 96,6% dei precari della ricerca sarà infatti espulso dalle università pubbliche italiane, mentre solo il 3,4% sarà avviato alla carriera universitaria.

La situazione descritta, comune a tutti gli atenei italiani, assume contorni drammatici nel Sud Italia, dal momento che il nuovo sistema di finanziamento pubblico penalizza le università collocate in territori dove prevalgono i redditi più bassi, alimentando una spirale viziosa che incentiva la migrazione degli studenti con maggiori possibilità economiche verso gli atenei del Nord, costringe coloro che nutrono ambizioni di carriera ad abbandonare le università in cui si sono formati e, in questo modo, sottrae energie e risorse a territori che potrebbero trarre un grande giovamento dallo sviluppo di relazioni virtuose con i poli universitari locali.

Per quanto riguarda il settore della Sociologia Economica in particolare, se è abbastanza semplice conoscere il numero dei ricercatori strutturati, è più complesso, proprio a causa dell’instabilità di carriere e della discontinuità dei contratti, avere un dato preciso sul numero di ricercatori precari che a vario titolo, collaborano nell’università italiana.

Nel 2015 è nato un gruppo informale di discussione formato principalmente, ma non solo, da sociologi economici precari, di nome SENSO (Sociologi Economici Non Strutturati Organizzati). Dopo un attento dibattito interno nel 2016 il gruppo ha deciso di partecipare alla Assemblea costituente della nascente Società Italiana di Sociologia Economica (http://www.sisec.it/senso/) e nel 2017 di aderire alla nuova SISEC. Questo è stato sicuramente un processo interessante e innovativo nel panorama italiano, in primo luogo perché il gruppo Senso è rappresentato da due membri “non strutturati” nel board di Sisec, ma soprattutto perché elegge in completa autonomia i due membri del board. Tutti i membri “non strutturati” iscritti alla Sisec, a prescindere dal loro ruolo formale in università, hanno inoltre gli stessi diritti di voto dei membri “strutturati”. Questo processo ci è sembrato un bell’esempio di cambiamento, di apertura e di democratizzazione della vita scientifica e accademica della disciplina. I risultati, a nostro avviso, si vedono soprattutto con le iscrizioni dei non strutturati all’associazione e con la loro partecipazione attiva ai convegni. Ma l’adesione dei sociologi economici precari all’associazione Sisec è anche un modo per contarci e per valutare il peso del precariato nella disciplina, il numero di iscrizioni è probabilmente il riferimento più utilizzabile come proxy del numero di non strutturati nella sociologia economica italiana. Nel 2018 la Sisec conta 252 iscritti totali, di questi 129 sono strutturati e il restante si divide tra 31 ricercatori a tempo determinato e 92 altri iscritti, tra i quali assegnisti, borsisti, contrattisti e dottorandi. Nel complesso, e tenendo conto delle dovute differenze, quasi la metà degli iscritti sono ricercatori non strutturati. E se questo numero da una parte è indicativo della vitalità e della attrattività della disciplina verso i più giovani, dall’altra è sinonimo di una difficoltà (diffusa in tutte le discipline universitarie, come abbiamo visto pocanzi) di assorbire quella parte dei “precari” maturi e formati dal punto di vista scientifico.

Nel complesso si può affermare che i problemi della ricerca precaria e del reclutamento in sociologia, e nella sociologia economica in particolare, non sono nient’altro che il riflesso dei problemi sistemici in cui verte l’Università italiana complessivamente intesa e che è potranno risolversi, con molta probabilità, solo con il ripensare il ruolo e l’impegno pubblico nell’università e della ricerca, sia per le ricadute a livello scientifico e economico che si possono avere nel territorio, sia per le ricadute culturali nel più ampio sistema sociale italiano (nel 2017 il 18% di laureati in Italia contro il 37% in media nella zona OCSE).

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