Sessione 26 – Studiare la condizione lavorativa: il caso del “lavoro povero”

Davide Bubbico, Università di Salerno – dbubbico@unisa.it

Fabrizio Pirro, Università di Roma «La Sapienza» – fabrizio.pirro@uniroma1.it

La recente crisi pandemica ha cronicizzato alcune caratteristiche del mercato del lavoro italiano, in particolare sotto l’aspetto contrattuale e retributivo. È infatti la crescita del lavoro a termine e del part-time involontario, spesso combinati insieme, che caratterizza la recente ripresa del mercato del lavoro italiano. Quella della diffusione delle forme di lavoro definibili come non standard, vale a dire in primo luogo non a tempo pieno e con contratto di lavoro a tempo indeterminato, è però una tendenza diffusa, presente anche oltre i nostri confini e che con modi e intensità diverse pervade il modo di produzione e consumo capitalistico nel suo complesso. Il riferimento a una nuova classe di lavoratori poveri (Alain Touraine) o ad unadi “classe esplosiva” (Guy Standing) riflettono la diffusione e la crescita di una componente dell’occupazione sempre più sottoposta nelle economie capitalistiche dell’Occidente (considerato che altrove tale carattere è predominante) a condizioni contrattuali e retributive sensibilmente “precarie”, con la crescita di quello che viene definito “lavoro povero”.

Ma la questione non è limitata alla durata contrattuale e/o alla scarsa retribuzione. La povertà dei lavori offerti è anche nel loro contenuto. Come è noto, il processo di deregolamentazione del mercato del lavoro italiano e di diffusione delle forme di lavoro non standard risale alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso. Di pari passo alle innovazioni di carattere legislativo e delle forme di lavoro, le stesse attività di lavoro (nell’industria come nei servizi) sono andate incontro ad un processo in molti casi di impoverimento dal punto di vista del contenuto professionale delle mansioni e in altri, più circoscritti, ad un processo di crescente qualificazione. In altri termini l’aumento della polarizzazione tra occupazioni considerate “qualificate” e “non qualificate”, a minore e a più alta retribuzione, ha finito per accentuarsi ulteriormente.

Il “lavoro povero”, inteso non solo con riferimento al lavoro a bassa retribuzione, ma spesso anche come lavoro a termine, a basso contenuto, contrattualmente sotto-inquadrato, generalmente meno tutelato dal punto di vista degli schemi di protezione sociale (ammortizzatori sociali), a più basso valore aggiunto, in realtà in molti contesti risulta essere fondamentale dal punto di vista della prestazione (pensiamo ai lavoratori del commercio durante il periodo pandemico o ai lavoratori delle pulizie, così come agli operatori sociosanitari di supporto alle attività infermieristiche o alle attività di cura). Per certi versi la degradazione delle forme contrattuali ha accompagnato una degradazione delle forme di retribuzione e non ultimo le stesse condizioni materiali della prestazione lavorativa dal punto di vista degli orari, dell’assenza di formazione, della minore tutela infortunistica e previdenziale. In questa chiave, ad esempio, un volume significativo di lavoro povero è appannaggio del lavoro migrante, spesso irregolare e per questa ragione ancor meno tutelato, o diversamente normato sul piano del contratto individuale e della contrattazione collettiva, come nel caso del lavoro migrante prevalente nei comparti della logistica e distribuzione, dove spesso sono cooperative fittizie a svolgere il ruolo di datore di lavoro.

Cosa determina il ricorso massiccio alle assunzioni a termine (così l’85% delle assunzioni che avvengono annualmente in Italia, vedi i Rapporti sulle Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del Lavoro), tanto nel settore dei servizi, come nel settore dell’industria? Perché le dinamiche retributive sono così basse? Se queste sono alcune possibili domande che possono trovare una risposta nella dinamica della contrattazione collettiva, nell’evoluzione della composizione settoriale dell’economia italiana verso un terziario a più basso valore aggiunto, piuttosto che nelle dinamiche di esternalizzazione della PA in comparti chiave come quello sanitario e socioassistenziale, gli attori responsabili di un processo di consolidamento del lavoro povero in Italia possono essere ricercati a più livelli: tra gli attori della rappresentanza datoriale, nello stesso apparato statale così come nelle condizioni di estrema competitività di alcuni settori dell’industria tradizionale piuttosto che del terziario di consumo o dei servizi alla persona o causa della crescita della c.d. contrattazione pirata ad opera di organizzazioni sindacali poco o per nulla rappresentative.

Lo studio della condizione lavorativa ha caratterizzato la sociologia del lavoro dalle sue origini e ha visto questa disciplina da subito dialogare con quante potevano contribuire a fare luce sulla complessità del fenomeno, dall’economia al diritto, dalla psicologia alla storia, alla medicina. Obiettivo della call è quello di richiamare l’attenzione di ricercatori di diversa formazione che operano in campo accademico, sindacale e nell’ambito dei centri di ricerca sul tema del lavoro e delle sue condizioni, con riferimento particolare alla categoria del cosiddetto “lavoro povero”.

I contributi attesi dovrebbero contribuire a ricostruire un quadro più approfondito sulle origini istitutive di tale condizione lavorativa e sulle sue ripercussioni concrete, sia dal punto di vista del contenuto delle mansioni, sia dal punto di vista dell’organizzazione della prestazione lavorativa, ad esempio, guardando ai regimi orari e di turnazione. Sarebbero pertanto auspicabili sia contributi in forma di risultati di ricerca, sia contributi che sul piano metodologico si sono confrontati con la ricerca di nuovi indicatori, sia con altri di carattere più teorico e comparativo tra casi nazionali. A tal fine sarebbero particolarmente auspicabili contributi sull’evoluzione delle forme di occupazione nei comparti socioassistenziale e sociosanitario, commercio e grande distribuzione, logistica e trasporti, turismo, e, più in generale, quelli in cui sono evidenti per effetto dei processi di esternalizzazione, i rapporti di lavoro discontinui (pensiamo al lavoro in somministrazione) piuttosto che meno tutelati sul piano retributivo e della contrattazione collettiva, come nel caso dell’outsourcing delle grandi e medie imprese del settore industriale (servizi mensa, pulizia, logistica, ecc.).

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