#1/2017: EMILIO REYNERI con Giovanna Fullin

Cominciamo dai tuoi studi: da bocconiano, come nasce il tuo interesse per la sociologia?

Avevo conosciuto un po’ di sociologia con l’esame di Angelo Pagani sull’imprenditorialità, ma soprattutto lavorando alla tesi di laurea avevo incontrato il Touraine dell’Usine Renault[1] e altri sociologi francesi che si occupavano di lavoro e di movimenti sindacali e mi sembrava fornissero letture migliori di quelle degli economisti per i temi del lavoro che avevo affrontato[2]

Tuttavia i miei rapporti con gli economisti si interrompono quando il professor Gasparini[3], mio relatore, non mi invita a continuare a lavorare con lui. Forse ero un po’ scomodo, perché da leader degli studenti di sinistra avevo anche contribuito nel 1967, qualche mese prima della laurea, alla prima occupazione della Bocconi, sia pure per una sola notte e per motivi meramente “sindacali” (la chiusura della Facoltà di Lingue). Per indicare il clima politico della Bocconi di allora basti ricordare la forte ostilità che l’organismo rappresentativo degli studenti aveva incontrato qualche anno prima nell’organizzare una conferenza di Antonio Giolitti, ministro socialista della programmazione economica. Laureatomi a luglio, ho trascorso settembre a rifiutare una ventina di proposte di banche e altre imprese (all’epoca questa era la regola per i pochissimi che avevano preso la lode in Bocconi, indipendentemente dall’argomento della tesi); ma già a ottobre ho avuto la fortuna di ottenere una borsa di studio del CNR per la neonata Scuola di formazione in Sociologia, ospitata dalla Società Umanitaria a pochi passi dal Palazzo di Giustizia di Milano.

La proposta di iscriverti alla Scuola di formazione in Sociologia ti sorprende o un po’ te l’aspettavi?

Mi fece chiamare Angelo Pagani, che aveva fatto parte della commissione della mia laurea, andata molto bene, proponendomi di frequentare la Scuola, che prevedeva delle borse di studio più che discrete per l’epoca. La Scuola, nata per iniziativa del Cospos[4], della Fondazione Olivetti e di una fondazione americana, era il primo tentativo di fare un corso post-lauream sull’esempio anglosassone, quando i dottorati ancora non esistevano, una novità anche per le altre discipline. Il primo anno fu diretta da Alessandro Pizzorno, che l’anno successivo andò all’estero e fu sostituito dallo stesso Pagani. I corsi del primo anno furono tenuti da quasi tutti gli ordinari di sociologia dell’epoca, tra cui quello fondamentale di Pizzorno su Barrington Moore, Gramsci e lo sviluppo sociale italiano; il secondo era dedicato alla ricerca. Il libro Lotte operaie e organizzazione del lavoro di Marino Regini e mio è frutto del lavoro di ricerca del secondo anno della Scuola. L’istruttore che ci seguì era Bruno Manghi, che non aveva ancora fatto la scelta di fare un’esperienza da operaio e di dedicarsi al sindacato.

Un anno dopo l’uscita dalla Scuola, durante il quale avevo fatto un ricerca per l’ILSES e insegnato con Marino Regini sociologia del lavoro alla Scuola per gli assistenti sociali dell’Umanitaria, vi tornai come istruttore. Insieme a Gian Primo Cella seguimmo un gruppo di studenti che condussero una ricerca sugli operai dell’Alfa Romeo. I risultati furono pubblicati da Classe, una rivista di storia del movimento operaio, e qualche anno dopo ciò costò a Gian Primo il fatto di non esser chiamato all’università di Torino, perché lo considerarono un pericoloso rivoluzionario.

Prima il 1968 degli studenti e poi il 1969 degli operai investirono la Scuola e i suoi giovani aspiranti sociologi, anche con episodi grotteschi, come la contestazione a una lezione di Norberto Bobbio, mentre il figlio Luigi, che avevo conosciuto nell’UGI, l’associazione degli studenti di sinistra, era in carcere. La stagione dei grandi movimenti sociali ebbe ovviamente un forte impatto sulle scelte di ricerca degli studenti nel secondo anno, che si divisero tra chi decise di seguire il movimento degli studenti e chi invece scelse di studiare le lotte degli operai. Tra i primi ebbe una qualche influenza il “paradosso donolo-gilliano” (proposto cioè da Carlo Donolo e Gian Antonio Gilli, che avranno un contrastato percorso nella sociologia italiana), secondo il quale non bisognava fare ricerca perché altrimenti si consentiva al capitale di comprendere la realtà e quindi fermare i movimenti. Regini ed io eravamo invece i soli “operaisti”, ma anche i soli con un’esperienza politica (Arturo Parisi e Raimondo Catanzaro non proseguirono nel secondo anno) e, più tradizionalmente, pensavamo che indagare la realtà sociale servisse a cambiarla. Entrambi, infatti, avevamo militato nello PSIUP, un piccolo partito nato da una scissione a sinistra quando il PSI andò al governo (io ero stato segretario della federazione giovanile di Milano). Così ho potuto continuare a coltivare il mio interesse per la ricerca sul tema del lavoro, nato già nella tesi di laurea. Lo studio dei problemi del lavoro è stato la costante di tutta la mia attività di cinquant’anni di ricerca.

 

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